Il titolo è già tutto un programma: “La lotta di classe nel XXI secolo”. Così si chiama il secondo libro di Lidia Undiemi, esperta di diritto dell’economia e consulente in importanti vertenze di lavoro. Edito da Ponte delle Grazie segue “Il ricatto dei mercati”, uscito nel 2014. Il volume fornisce una approfondita ricostruzione storica di come si sia evoluta e trasformata la lotta di classe in diversi paesi del mondo, arrivando fino ai giorni nostri. In questo modo è possibile rendersi conto di come i sindacati abbiano via via abdicato al loro ruolo di contrapposizione al potere del capitale in nome di quell’interesse superiore del paese che di tanto in tanto irrompe sulla scena politica. Un’evoluzione che nuoce ai lavoratori ma anche alla tenuta dei sistemi democratici alle prese con un progressivo aumento delle diseguaglianze. Oltre all’analisi il libro di Undiemi descrive però anche la strada che le organizzazioni dei lavoratori dovrebbero intraprendere per provare a riconquistare il terreno perduto.
Dott.ssa Undiemi, perché un libro sulla lotta di classe? A prima vista sono terminologie che rimandano al secolo scorso, al pensiero di Karl Marx. O forse ha ragione il finanziere statunitense Warren Buffet quando afferma che la lotta di classe esiste eccome, soltanto che ormai l’hanno vinta i ricchi?
Sebbene sia celata sotto un’illusoria “pace sociale” le posso assicurare che la conflittualità tra capitale e lavoro non è mai venuta meno. Semplicemente è stata nascosta e relegata alle aule dei tribunali. Questa idea per cui saremmo tutti sulla stessa barca è servita in realtà alle aziende per stringere sempre più all’angolo i lavoratori e negli ultimi decenni ogni crisi è stata sfruttata per comprimere ulteriormente salari e diritti. Se guardiamo alla storia del resto la “pace sociale” è un concetto tipico dei regimi totalitari piuttosto che delle democrazie in salute.
E i sindacati cos’hanno fatto, o non fatto, davanti a questa avanzata del capitale?
Non abbastanza. Hanno sposato questa visione di una società ormai pacificata abdicando a gran parte delle loro funzioni tradizionali e attribuendosene altre. Mi riferisco soprattutto ad un protagonismo politico su altri temi rispetto a quello del lavoro. Il sindacato non dovrebbe occuparsi della formazione della ricchezza, bensì della sua redistribuzione sotto forma di salari e altri diritti sociali.
Pure i sindacati non hanno avuto vita facile nel mondo che ha preso forma dagli anni ’80 in poi. Penso soprattutto all’arma di ricatto che sono diventate le delocalizzazioni, difficile fare battaglie quando la controparte ha “un’arma definitiva”. Cosa dovrebbero fare oggi le organizzazioni dei lavoratori?
Senza dubbio ci sono fattori esterni che hanno contribuito ad indebolire i sindacati in tutto il mondo ma bisogna smettere di subire la globalizzazione come se fosse un evento quasi divino e quindi ingovernabile ed immodificabile. Il sindacato deve innanzitutto attuare una trasformazione organizzativa al suo interno, ripensare il suo ruolo e, lo ripeto, alla base del declino del potere contrattuale c’è soprattutto l’adesione all’idea della fine della conflittualità. I sindacati devono provare a rialzarsi e per farlo devono iniziare ad attingere a quel preziosissimo materiale che sono le pronunce dei giudici del lavoro. Come dicevo questo è l’ambito in cui la conflittualità non è mai venuta meno e si ritrovano approfondite analisi di cosa sia diventato oggi il mondo del lavoro.
Lo squilibrio nella contrapposizione tra lavoro e classi prevalenti è una delle cause dell’aumento delle diseguaglianze a cui stiamo assistendo. Uno dei modi in cui avviene l’erosione di diritti e stipendi è ad esempio quello di spostare la contrattazione sul secondo livello, vale a dire nelle singole aziende dove i lavoratori hanno una forza negoziale ridotta. Andrebbe invece rivalutata la contrattazione di primo livello, quella collettiva dove il peso delle controparti si bilancia maggiormente. Il ripristino di una sana e democratica conflittualità è l’unico modo per arginare lo strapotere del capitale.
Nel suo libro Lei sottolinea come, se calato nel contesto che descrive, l’introduzione del salario minimo legale possa assumere significati tutt’altro che positivi. Ci può spiegare?
Occorre distinguere tra paesi emergenti, in cui di fatto i lavoratori sono abbandonati a loro stessi o quasi e le economie più avanzate. Nel primo caso una soglia minima è positiva perché, in assenza di forza contrattuale dei lavoratori, l’intervento statale è l’unico che può garantire un livello dignitoso delle retribuzioni. Nel secondo caso può essere invece un segnale preoccupante, significa che i sindacati non sono più in grado di garantire quello che prima era scontato ossia un minimo salariale a cui si aggiungono altre forme di integrazione retributiva. Oppure, come credo stia accadendo in Italia dove per fortuna il sindacato è ancora forte, si pensa che il vuoto in alcuni lavori senza salario minimo possa e debba essere colmato dal potere politico anziché dalla contrattazione collettiva. Un grave errore, perché si presuppone che la politica nel fissare il livello minimo sia amica dei lavoratori, e non è così, specie in un momento storico come quello attuale. Il tema necessita però di ulteriori approfondimenti.
Nel suo libro si parla molto anche del ruolo delle multinazionali, e si coglie anche una forte preoccupazione per quello che potremmo definire il “modello Amazon”…
Amazon anticipa quello che, se in assenza di argini, potrebbe diventare la normalità del rapporto tra grandi aziende e dipendenti. Ha un tipo di organizzazione del lavoro che viene definita quasi militare ma, soprattutto, cerca di trasferire ai suoi dipendenti una vera e propria filosofia di vita totalizzante, che invade anche il tempo libero e le modalità in cui viene speso. Amazon attua un sistema organizzativo e di controllo dei dipendenti che è spaventoso, e lo può fare grazie alla tecnologia. Ben consapevole della forza numerica dei suoi dipendenti, Amazon conosce bene i rischi della loro sindacalizzazione su larga scala, per cui si può notare la nascita di interessanti focolai nel mondo.
Lei non è molto ottimista neppure sul crescente utilizzo di tecnologia nelle aziende. Ci sono attenti osservatori del mondo del lavoro che rilevano come ormai le aziende cerchino soprattutto lavoratori che non sanno fare nulla per fargli fare tutto, un po’ il contrario della vulgata comune per cui le imprese hanno bisogno di personale sempre più qualificato.
Io constato che, purtroppo, per ora le tecnologie hanno portato una diffusa mortificazione delle professionalità, precarizzato i rapporti e consentito modelli di direzione e di controllo dei dipendenti che sono l’apoteosi del capitalismo dell’800. Sempre più mansioni, in ogni settore, vengono automatizzate e gestite da algoritmi e computer. Il compito del lavoratore si esaurisce così in semplici operazioni di immissione di dati. Può darsi che in futuro, lo spero, beneficeremo tutti e di più del massiccio utilizzo di tecnologia ma desso non è così.
Venendo all’Italia di oggi, cosa si aspetta dal governo di Mario Draghi?
Faccio una premessa: come presidente della Banca centrale europea Draghi ha avuto un grande merito. Quello di “retrocedere” il ruolo e il potere del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), ovvero della Troika, attribuendo direttamente alla Bce il compito di aiutare gli stati, sebbene da un certo momento in poi, in caso di crisi dello spread. In questo modo è stato scongiurato quello che sarebbe stato una sorta di commissariamento di alcuni paesi come l’Italia. Venendo al nuovo governo mi attendo, presto o tardi, una riforma del mercato del lavoro in senso peggiorativo per i dipendenti. Draghi è in fondo espressione di forze liberali e di destra. Allo stato attuale, il problema è dunque l’assenza di un soggetto politico di sinistra in grado di difendere i lavoratori.