Ho partecipato a diversi incontri che trattano la violenza sulla donna. A breve sarà l’8 marzo.
Voglio qui riassumere, con le dovute cautele e tutele, l’esperienza devastante di una violenza sul corpo che non riesce ad essere simbolizzata.

Mi vedo, ma non mi percepisco. Le parti del mio corpo sono slegate, frammentate. Punto la sveglia ogni giorno ad un orario diverso, avanzando ogni volta di un quarto d’ora, ma non riesco a forzare una gabbia temporale che non riparte se non dal momento in cui avvenne il tutto. Erano le quattro del mattino. Da allora, ogni ora per me è sempre le quattro del mattino. Alle 4 mi alzo, alle 4 mangio. Alle 4 faccio la doccia, alle 4 mi corico. Financo le nuvole, il sole, la pioggia, seppur io li veda muoversi e susseguirsi con immenso sforzo come fossero rallentati, paiono ruotare in un lasso di tempo che va dalle 4 alle 4 e mezza. Alle 4 e mezza del mattino venni raccolta per strada. Ricordo la luce che filtrava dalle dita protese del mio soccorritore. Quando persi i sensi pioveva, faceva freddo. Seppi solo dopo che erano le quattro di mattina. Un giorno che è diventato un’epoca, mutata in un’era ghiacciata e ripetitiva.

A volte la mia mente, spontaneamente, apre i cancelli e sono sopraffatta da qualcosa che sembra un ricordo: la voce di mio padre, la scuola dei miei figli. Ma sono immagini spettrali, rachitiche, nebbie che si dissolvono all’arrivo del ricordo inchiodato di quel giorno. Erano in cinque, mi sbatterono a terra, mi violentarono mentre uno di loro mi strappava orecchini e orologio. I loro visi, all’imbrunire e al fare del mattino, ancora appaiono, tenui e ghignanti, sovrapponendosi a quelli dei miei familiari. Quante volte mio figlio è stato costretto a dirmi “Ehi, mamma! Sono io ehi?” quando mi vede immobile, mentre fisso il vuoto, momento che precede lo sprofondo nel ricordo di quel giorno alle 4 di mattina.

In palestra mi metto davanti allo specchio, ma i volti di quei tizi mi compaiono alle spalle, per questo mi siedo e mi metto al vogatore. Devo sempre avere la musica in sottofondo, pena l’udire le loro voci sporche di saliva “Stai ferma! Cosa gridi, alle 4 non ti sente nessuno!” Da allora non posso più essere toccata, sfiorata. La mia dermatologa usa un paio di guanti doppi, e pian piano mi accarezza le gote chiedendomi se e quando la sua mano diventa la loro, la sua voce sfuma nelle loro voci. Allora si blocca. Il mio analista non può più mettermi sul lettino, perché la posizione favorisce l’arrivo dei loro volti. Il mio medico non mi visita più, dalla ginecologa non riesco più ad andare perché la parte bassa del mio corpo è come se fosse ancora sanguinante ed intoccabile.

Quando mi faccio il bagno, chiudo a doppia mandata ponendo davanti alla porta una sedia messa di traverso. Sento che arrivano, avverto il loro odore. Non posso appisolarmi perché temo che al mio risveglio li possa ritrovare lì, tutti e 4, dentro al mio bagno. Poi vado a letto, ingoio un sonnifero. Non appena prendo sonno, rivedo e rivivo quella scena fin verso le sei del mattino. Quando mi alzo bevo il tè, osservo l’orologio, e vedo che sono di nuovo le 4. È così da almeno due anni.

Questa storia non è la storia di una sola donna, ma quella di Tania, Maria, Roberta, Emma e tante altre ancora. In queste righe si trovano le vite interrotte di tutte quelle donne che, dopo aver subito una violenza sessuale, cadono nell’inferno della ripetizione post traumatica, costrette a rivivere la scena dello stupro per mesi, a volte anni.

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