Dopo l’annuncio di ieri, oggi è arrivata anche la lettera con la quale Nicola Zingaretti ha formalizzato le proprie dimissioni da segretario del Partito Democratico. La missiva è stata inviata alla presidente del partito, Valentina Cuppi, a cui spetterà la gestione ordinaria fino all’Assemblea nazionale del 13 e 14 marzo.
La presidente dovrà, quindi, modificare l’ordine del giorno, inserendo al primo punto le dimissioni del segretario. Non è nella disponibilità dei ‘mille’ respingere le dimissioni di Zingaretti. In linea assolutamente teorica, dal momento che in pratica il leader ha assicurato (almeno per ora) di non voler tornare sui suoi passi, per restare alla guida del Nazareno il segretario dimissionario dovrebbe non presentare formalmente le dimissioni, ritirarle prima di sabato 13 marzo o farsi rieleggere dall’assemblea. Se invece, come sembra, la sua avventura da leader dei “è finita”, è l’articolo 5 dello statuto a regolare la situazione: “Qualora il Segretario cessi dalla carica, prima del termine del suo mandato l’Assemblea può eleggere un nuovo Segretario per la parte restante del mandato ovvero determinare lo scioglimento anticipato dell’Assemblea stessa”, si legge al comma 4. Cuppi dovrebbe quindi dare un termine temporale per la presentazione di eventuali candidature e, nel caso fossero presenti, si procederebbe alla votazione. È quanto accaduto, ad esempio, nell’Assemblea Nazionale del 7 luglio 2018: il segretario reggente Maurizio Martina, con l’accordo di tutte le anime interne, si candidò come segretario e venne eletto con il compito di guidare la fase congressuale.
In assenza di passi in avanti per la guida del Nazareno si procederebbe, invece, con il “formale avvio della fase congressuale“, nella quale “la gestione ordinaria del partito è affidata al Presidente dell’Assemblea nazionale, in qualità di Presidente pro-tempore della Direzione nazionale”. In questo caso, l’assemblea dovrà anche eleggere una commissione di garanzia (nella quale vengano rappresentate tutte le anime interne) che gestisca il cammino verso il congresso con il contemporaneo scioglimento degli attuali organismi dirigenti.
Fatto sta che che le dimissioni di Zingaretti sono solo l’ultimo capitolo nella lunga lista di addii dei vari segretari. Il primo è stato Walter Veltroni, nel 2009: dimissioni dopo la sconfitta alle regionali in Sardegna con atto di accusa durissimo nei confronti delle correnti. Da allora, la sorte del primo leader è toccata a tutti gli altri, fino a Nicola Zingaretti. Tornando indietro nel tempo, ha lasciato anzitempo l’ufficio del Nazareno Pier Luigi Bersani, nel 2013, dopo il drammatico epilogo della scelta del candidato per il Quirinale, i 101 e la bocciatura di Romano Prodi e Franco Marini. Stessa sorte per Matteo Renzi, che detiene un piccolo record: due volte segretario e due volte dimissionario. La prima volta nel 2017, anche quella volta sulla scia delle polemiche con l’allora minoranza. Poi nel 2018, in seguito alla sconfitta al referendum.
“Il Pd è il mio partito e non faccio parte di alcuna corrente. Con Nicola Zingaretti ci frequentiamo fin da ragazzi, ho votato per lui all’ultimo congresso, mi ha sostenuto nella mia rielezione a presidente dell’Emilia-Romagna. La mia fiducia personale c’è sempre stata e c’è, immutata. Ogni scelta va rispettata, ma credo che dimettersi sia una scelta sbagliata. La stima rimarrà sia se deciderà di rimanere segretario, come spero, sia se confermerà le sue dimissioni”, ha scritto su Facebook il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini.
“Siamo convinti della necessità ormai ineludibile di aprire un cantiere tra quanti, nella società civile e nelle forme organizzate della politica, si riconoscono nel campo largo delle forze progressiste, democratiche ed ecologiste, che si battono per i diritti civili e di genere e che sono antifasciste e contro il razzismo – hanno invece comunicato Loredana De Petris, Vasco Errani e Sandro Ruotolo – Le dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Pd da un lato, la decisione di Giuseppe Conte di rifondare il Movimento 5 stelle così come la nuova fase politica che si è aperta pongono a tutti noi la questione di una ristrutturazione del campo democratico, progressista ed ecologista. Abbiamo più che mai bisogno di rompere le vecchie gabbie e di ridefinire valori, contenuti e proposte per stare insieme, per costruire una nuova idea di Paese. Si impone una riflessione seria sulla propria identità, sulla funzione storica del campo progressista e in esso di una sinistra popolare, ecologista all’altezza delle sfide del terzo millennio. Prima di tutto le persone”.