Il dottor Gjoni arrivò a Brindisi il 7 marzo 1991 insieme ad altre migliaia di connazionali, in cerca di libertà dopo i decenni sotto il regime di Enver Hoxha. La città fece da sola per tre giorni, in una gara di solidarietà che non ha conosciuto repliche nella storia. Dopo aver fatto l'agricoltore e il badante, Gjoni si è laureato di nuovo e ora è un medico del 118 in prima linea contro il Covid: "Ma resterò sempre in debito con i brindisini"
In città dicono che sia il medico del 118 più bravo. Lo raccontano i tanti che ha salvato. Come Giovanni Bruni, giocatore di pallacanestro, il cui cuore si fermò dopo una partita nel febbraio 2005. A bordo dell’ambulanza lo rianimò lui, Pjerin Gjoni, uno dei 27mila albanesi arrivati a Brindisi tra il 6 e il 7 marzo 1991. I numeri rendono le proporzioni: 27mila profughi in un comune di 80mila abitanti, abbandonato a se stesso da uno Stato che impiegò tre giorni ad organizzare una risposta al primo esodo da un paese ex comunista dopo il crollo del muro di Berlino. Arrivavano su zattere di fortuna, sgangherate navi mercantili riadattate a “carrette del mare” per coprire lo spazio che separa le coste pugliesi da quelle di Valona e Durazzo. Affamati e infreddoliti, in cerca di libertà dopo i decenni sotto il regime di Enver Hoxha. Poteva trasformarsi in una guerra civile, fu un miracolo di umanità. “Incontrammo un fratello che non sapevamo di avere”. La spiega così adesso il dottor Gjoni, nato il 7 agosto 1956, “lo stesso giorno di Gerry Scotti”, sorride.
Era un pediatra nella zona di Kryevidh ma, dopo essere salito sulla Lirja con sua madre, ha dovuto ripensare la sua vita. Arrivato a Brindisi insieme ad altri 3.800 disperati dopo 36 ore di navigazione, capì subito cos’era la libertà: “Il porto non era recintato, già questo per noi era un segnale”. Ricominciò da dove aveva lasciato, per qualche giorno. Migliaia di suoi connazionali, in preda a vomito e dissenteria, avevano bisogno di una mano. E lui intervenne insieme ai volontari della Croce Rossa, primo avamposto di un’accoglienza che i brindisini auto-organizzarono per 72, drammatiche, ore. Il sindaco Giuseppe Marchionna, 38 anni, in prima fila insieme al vescovo Settimio Todisco e al prefetto Antonio Barrel. La città tutta dietro, compatta: “I brindisini aprirono le loro case, entravamo in cinque, dieci, per fare una doccia, mangiare un pasto caldo”, ricorda Pjerin. Nella stazione marittima, accampati in migliaia, gli albanesi dormono sotto teli di plastica dentro le bisarche. Le scuole vengono requisite e allestite come dormitori. Le mense aziendali preparano migliaia di pasti al giorno, il resto lo fanno i cittadini con tavolate organizzate nei garage, letti messi a disposizione. Una carovana solidale spontanea. “La città aveva i suoi problemi, come la criminalità. Ma tutto passò in secondo piano e noi non possiamo dimenticare”, dice ancora Pjerin, alla ricerca ancora del signore che gli regalò 17mila lire per telefonare ai suoi parenti dall’altra parte dell’Adriatico.
Passate le settimane di emergenza, il dottor Gjoni deve togliersi il camice. “Ho fatto l’agricoltore, perché sapevo curare la vigna. Quindi lo sfasciacarrozze e il badante”. Ma il sogno resta tornare a fare il medico. Si iscrive all’università di Bari, facoltà di medicina. “Mi convalidano pochi esami, ho dovuto quasi ricominciare da zero”. Laurea con 110 e lode, quindi la specializzazione in Virologia e, dopo qualche anno di libera professione, l’ingresso nella squadra del 118 di Brindisi. “Quando mi spiegarono i turni, citando lo ‘smontante’ e il ‘riposo’, chiesi cosa fossero – racconta – In Albania non esistevano nulla di tutto ciò. Finita una visita, ne iniziavo un’altra. Era un’area difficile, seguivo migliaia di bambini. Non mi fermavo mai”. Un po’ come è avvenuto nell’ultimo anno, con il coronavirus. “È tutto più difficile, sia gli interventi con i positivi a Sars-Cov-2, un virus infido, che per altre emergenze. Dobbiamo essere buoni medici e anche psicologi, interagendo con i pazienti che spesso non vogliono essere trasportati in ospedale per paura di essere infettati”. Il dottor Gjoni è rimasto in prima linea, colpito anche lui dal virus a dicembre: “Paucisintomatico, l’ho superato bene e ho avuto una risposta immunitaria alta”. Quindi è tornato a rivestirsi, affrontando il pericolo. Anche un po’ il modo per restituire quanto ha ricevuto? “Sarò sempre in debito, non basteranno migliaia di interventi per ripagare l’accoglienza che insieme a migliaia di miei connazionali ho ricevuto. Mai”, ripete Pjerin.
Perché quanto accaduto a Brindisi in quei giorni è stato un unicum nella storia dell’accoglienza. Cinque mesi dopo, quando la nave Vlora attraccò a Bari, in migliaia venne rimpatriati dopo i giorni dello stadio della Vittoria, dove gli albanesi sostarono per giorni sotto la canicola agostana. E nel corso degli anni l’Italia divenne sempre meno ospitale, fino al Venerdì santo del 1997, giorno del naufragio della Katër i Radës, affondata nel canale d’Otranto con 120 persone a bordo dopo la collisione con la corvetta Sibilia della Marina Militare. “È vergognoso che quanto fatto dai brindisini nel marzo 1991 sia ricordato solo con una targhetta nella zona del porto”, sottolinea Pjerin. Anche per questo, da poco, in città è nato il comitato “Storie di casa mia”, per coltivare la memoria di quella ‘fratellanza innata’, la chiama il dottor Gjoni. Tra i tanti interventi, ne ricorda uno in particolare: “Qualche anno fa arrivarono decine di profughi siriani. Professionisti costretti a lasciare la loro amata terra, come me. Ero nella squadra che li soccorse”. La banchina del porto dove attraccò la nave era la stessa del suo sbarco, ma questa volta Pjerin era bardato in una tuta da medico. Come sognava in quel marzo del 1991, quando salì sulla Lirja. In albanese vuol dire libertà.
Twitter: @andtundo
Foto di Damiano Tasco