Cultura

“Beethoven? La sua sordità ha influito così sui suoi concerti”: l’intervista al musicologo Giorgio Pestelli

Il professore emerito nell’Università di Torino, Accademico dei Lincei e critico musicale di recente ha scritto I concerti di Beethoven: il genio da pianista a compositore (Donzelli editore, 176 p.) in cui analizza i cinque per pianoforte, quello per violino, e il “triplo concerto” per pianoforte, violino, violoncello

di Giuseppina La Face

Giorgio Pestelli è musicologo, professore emerito nell’Università di Torino, Accademico dei Lincei, critico musicale della “Stampa”. È stato direttore artistico dell’Orchestra e Coro della RAI di Torino. Non disdegna la divulgazione, usa uno stile limpido, suggestivo, a tratti poetico. Per l’editore Donzelli ha pubblicato un delizioso “viaggio attraverso le nove Sinfonie” (Il genio di Beethoven, 2016, nuova ed. 2020) e di recente I concerti di Beethoven: il genio da pianista a compositore (Donzelli editore, 176 p.). Analizza i cinque per pianoforte, quello per violino, e il “triplo concerto” per pianoforte, violino, violoncello.

Giorgio Pestelli, a chi è destinato il libro sui Concerti di Beethoven? chi sono i lettori ideali?
L’ho scritto su invito dell’editore. Ho pensato ai miei allievi, e a un pubblico generico non particolarmente alfabetizzato, ma anche ai musicisti: ho inserito qualche riferimento alla partitura, alle ‘battute’.

Lei è anche pianista.
Sì, la musica pianistica mi è congeniale. Nel 2020 il centenario beethoveniano mi ha spinto a scrivere sul musicista.Il lockdown mi ha dato la concentrazione per concludere.

Quasi tutti i Concerti furono composti nel primo decennio dell’Ottocento, però sono molto diversi.
Le prime composizioni beethoveniane dei grandi cicli – sinfonie, sonate, concerti – si confrontano con lo humor di Haydn e la cantabilità degli Adagi mozartiani. Beethoven non riteneva i suoi primi due concerti un capolavoro: li portava in tournée, li rimaneggiava di continuo. In realtà mostrano grandi bellezze, soprattutto nelle mani di alcuni interpreti.

A chi pensa?
A Marta Argerich per il secondo, all’impassibile virtuosismo di Arturo Benedetti Michelangeli per il primo.

Ad un tratto Beethoven avverte i sintomi della sordità.
La malattia si manifesta verso il 1800. Fra il primo e il secondo Concerto non era totale: molti studiosi reputano che anche negli ultimi anni il musicista non fosse completamente sordo. Ai tempi del Quinto concerto, nel 1809, sentiva, ma i suoni forti lo facevano star male: trascorse giorni e notti con i cuscini sulle orecchie per proteggersi dal rumore delle granate, nella Vienna assediata dalle truppe napoleoniche.

Che ruolo ha svolto nei Concerti la sordità?
Dal terzo, quello in Do minore, Beethoven rafforza l’introspezione e bada meno all’esibizione. Si passa dal pianista al compositore: lavora più dentro sé stesso, insomma.

Come componeva?
Portava con sé un taccuino e appuntava le idee. Non necessariamente la bella frase musicale scaturita dalla lettura di versi poetici, ma qualsiasi accenno sonoro: trasformava tutto in spunti musicali.

Lei parla di ‘scintilla’ della creazione.
Beethoven inverte l’aforisma di Ippocrate “Ars longa, vita brevis”. Dice che “lunga è la vita, corta l’arte”: il soffio dell’ispirazione subito scompare, come una scintilla. Per questo appunta ogni suggestione e la traduce in musica: il comico, il tragico, la natura, la vita quotidiana, il metronomo,…

Nel terzo Concerto, il rimando è al ‘patetico’ di Schiller.
Sì, il ‘patetico’ di Friedrich Schiller è un tema teatrale-letterario: è il contrasto fra l’individuo e una forza incombente che lo sovrasta. Beethoven ricorre qui alla tonalità di Do minore, come nella Sonata Patetica e nella Quinta sinfonia.

Il ‘patetico’ c’è anche nel Quarto Concerto?
Nel secondo movimento sì. L’orchestra si avventa sul solista: mentre il mondo esterno è in tumulto, il pianoforte sembra cantare un corale, una preghiera. Il critico tedesco Adolf Bernhard Marx lo paragonò allo scontro fra Orfeo e il coro delle furie infernali, che gli negano l’accesso all’Ade: così è in Ovidio e Virgilio, e nell’opera di Gluck.

Ma il primo tempo è diverso…
Certo, qui non trapela questa energica reazione al destino, c’è un’idea affettuosa, intima, uno sfondo preromantico. E poi c’è l’inizio, fascinoso: il pianoforte avvia il discorso da solo, un libero preludiare in un mondo magico, sospeso.

Lei definisce il Quinto, in Mi bemolle, un riassunto.
Siamo al culmine: il passato, i drammi, per quanto veementi, emergono come frammenti, ricordi. Le grandi masse sonore ci sono, ma vengono intimizzate. Dopo il Quinto, la forma del concerto per pianoforte si ‘svuota’: nulla di simile ci sarà fino a Brahms. Neppure Chopin conoscerà il rovello profondo instaurato da Beethoven fra solista e orchestra.

Lei esamina anche il Concerto per violino.
È un gran bel concerto, lo eseguì il violinista Franz Joseph Clement: apprese a memoria la parte due giorni prima del concerto!

Nel futuro proseguirà con un libro sulle Sonate? o sui Quartetti?
Le Sonate no, non credo. Forse i Quartetti, ma non conosco bene gli strumenti ad arco…

Ma li conosce benissimo, lo dico da violinista.
Se lo dice Lei…(ride). Sa, ormai mi piace soprattutto leggere…(ride).

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