Ci siamo! “anche questo Sanremo ce ‘o semo levato dalle…” avrebbe detto quel personaggio vanzinesco di Vacanze di natale. Ovviamente si scherza, per me, come avrete capito, seguire il festival è un divertimento sia quando offre serate riuscite (la prima, la terza), sia quando si arena un po’ (la seconda) o sbanda (la quarta). L’ultima è l’ultima e diciamo un pregio l’ha avuto anche quest’anno: incuriosire riguardo al nome del vincitore anche chi come me non ha grande dimestichezza con la musica dei cantanti che si contendono il primo premio. Ma lasciamo la musica ai critici musicali e torniamo alla televisione. Per l’ultima pagella del meglio e del peggio prendiamo in considerazione due elementi di carattere generale presenti in tutte le serate. Tra le cose che non mi hanno proprio convinto quest’anno c’è la scenografia, un fattore che in queste particolari condizioni con la platea vuota diventava ancor più importante. Ebbene questa sorta di astronave virtuale con tutti i suoi ingranaggi ispirata al cinema di fantascienza ma che ricordava soprattutto la Metropolis di Fritz Lang mi è parsa più cervellotica che davvero evocativa. E gli spari di luce, i continui raggi luminosi, i repentini cambi cromatici sono risultati tanto vistosi quanto insignificanti; anche le immagini proiettate sullo sfondo raramente hanno aggiunto qualcosa. Un’occasione mancata come è mancato lo sfruttamento dello spazio della platea vuota: solo Max Gazzè nel corso della sua ultima esibizione ci ha sorpreso scendendo dal palco e scavalcando un po’ alla Benigni le poltrone. E qui già stiamo sconfinando nel meglio dell’ultima serata. Ma, come dicevo, lasciamo perdere i particolari e concentriamoci sui temi generali. Uno soprattutto ha tento banco in questa edizione: la durata, la durata eccessiva delle serate, che in assenza del tradizionale Dopofestival prolungava lo spettacolo fino a tarda, tardissima notte, oltre le 2.30 ieri, anzi oggi per la precisione. Ora confesso che da principio e in linea di principio mi sono sempre schierato contro queste scelte, soprattutto nelle serate dei giorni feriali quando famiglie, lavoratori, studenti devono programmare una sveglia piuttosto presto per la mattina successiva. Insomma, capivo i calcoli perversi del rapporto audience/share/ introiti pubblicitari, ma pensavo che il servizio pubblico dovesse rispettare anche altre regole di carattere civile. Poi, proprio nel corso di queste ultime serate, anche in seguito alle ripetute battute scherzose dei conduttori sul tema mi sono accorto di una cosa: quello della durata, del prolungamento fino a notte fonda non è soltanto un cinico calcolo economico. Si tratta di una scelta che ha a che fare con una dimensione culturale molto importante, quella della festa, del suo tempo e dei suoi riti. Se Sanremo è, come sempre si dice, una festa, allora il suo tempo non può essere il tempo normale, feriale, deve marcare la sua eccezionalità festiva, contenere il piacere di tirare tardi, vivere la magia della notte. Un po’ come accade (o accadeva) nella vita reale quando tornando da una festa a chi ci chiedeva se ci fossimo divertiti si rispondeva: eccome! abbiamo fatto le quattro del mattino. Ecco, Sanremo funziona proprio così e io non me ne ero accorto. All’anno prossimo!