Oltre alla pesante eredità dei 31mila metri cubi di rifiuti radioattivi depositati in 24 impianti distribuiti su 16 siti (inidonei, pericolosi e spesso a rischio di esondazione) di otto regioni, c’è anche quello del traffico e dello smaltimento illegale di questo materiale, alimentato anche dall’elevato costo di smaltimento. Un settore su cui la criminalità organizzata ha già da tempo puntato gli occhi. È quanto denuncia oggi Legambiente con numeri e dati raccolti nel report ‘Rifiuti radioattivi ieri, oggi e domani: un problema collettivo’, lanciato in vista del decimo anniversario dall’incidente di Fukushima e in cui si fa anche una panoramica della situazione a livello nazionale ed europeo.
LE DENUNCE E LE INCHIESTE – In Italia dal 2015 al 2019, il lavoro svolto dai carabinieri (attraverso il comando Tutela Ambiente e il Cufa) ha portato alla denuncia di 29 persone, con 5 ordinanze di custodia cautelare, 38 sanzioni penali e 15 sequestri. Ma l’esistenza di un’illegalità “sommersa” viene confermata dai dati del ministero della Giustizia pubblicati nel Rapporto Ecomafia 2020: dal 2015 (anno di entrata in vigore dei delitti contro l’ambiente tra cui quello di traffico e l’abbandono di materiale ad alta radioattività) al 2019 i procedimenti penali avviati sono stati 25, con 10 persone denunciate e un arresto. Di questi procedimenti, 14 sono stati avviati contro ignoti, anche a causa del fenomeno delle cosiddette ‘sorgenti orfane’, abbandonate tra i rifiuti e di cui non si riesce a tracciare l’origine. Solo a febbraio scorso la Direzione distrettuale antimafia di Milano guidata da Alessandra Dolci ha smantellato un’associazione a delinquere, con forti connessioni con la ‘ndrangheta, attiva nel traffico illecito di rifiuti. Fondamentale per le indagini il controllo, avvenuto a maggio 2018, di un tir che trasportava 16 tonnellate di rame a Brescia, lungo l’autostrada. Quei resti di cavi di rame erano radioattivi.
LO STATO DI INSICUREZZA – Ecco perché, sottolinea Legambiente, per fermare la rincorsa alla ‘radioattività in nero’, oltre alla realizzazione del deposito nazionale di rifiuti a media e bassa attività e alla piena applicazione della legge 68/2015 che ha introdotto i delitti ambientali nel codice penale “è indispensabile anche la rapida entrata a regime del Sistema informatico di tracciabilità di tutta la filiera legata all’uso di materiali e sorgenti radioattive, dal commercio alla detenzione”. Un sistema previsto dal decreto legislativo 101, in vigore da agosto 2020 e con cui l’Italia ha recepito la direttiva Euratom del 2013. “Tracciabilità e lotta ai traffici illegali, che vedono anche il coinvolgimento di organizzazioni criminali – spiega Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – devono essere al centro delle nuove politiche di gestione dei rifiuti radioattivi a media e bassa radioattività di origine sanitaria, industriale e da attività di ricerca da smaltire nel futuro deposito nazionale”.
UNO SGUARDO ALL’ITALIA – Nell’attesa del deposito (solo a gennaio scorso è stata pubblicata la Cnapi, ossia la lista dei luoghi potenzialmente idonei), nel report si raccontano 17 storie sulle condizioni in cui si trovano gli impianti e le strutture di stoccaggio di materiale radioattivo più importanti della Penisola. Siti come l’ex centrale nucleare di Borgo Sabotino, a Latina, posta a meno di un chilometro dall’attuale linea di costa o come le ex centrali di Garigliano e di Caorso (in provincia di Caserta e di Piacenza) “entrambe poste in aree ad elevato rischio idrogeologico in quanto costruite a ridosso di due importanti fiumi come il Garigliano ed il Po”. Stesso discorso per Saluggia, nel vercellese, dove in un punto a ridosso della Dora Baltea e a soli tre chilometri dalla confluenza con il Po, si trovano tre impianti diversi (Eurex, LivaNova ed il deposito Avogadro), che hanno spesso corso il rischio di essere alluvionati e dove sono stoccati i rifiuti con la carica radioattiva più elevata (circa il 70% del totale presente in Italia). Non va meglio nel deposito di Rotondella (Matera) o di Statte (Taranto). Nel primo è stata accertata una illecita attività di scarico a mare dell’acqua contaminata, che non veniva in alcun modo trattata, e nell’altro i rifiuti attualmente gestiti si trovano in una situazione “seriamente preoccupante” a causa del “diffuso deterioramento della struttura”.
IN EUROPA – In Europa, secondo i dati della Commissione Ue, sono 126 le centrali nucleari attive distribuite in 14 Paesi (Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Olanda, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Regno Unito) che detengono (insieme ai due Stati che hanno intrapreso la strada del decommissioning, Italia e Lituania), circa il 99,7% del volume totale dei rifiuti radioattivi stoccati nel continente. Le ultime stime, riferite al 2016, vedono 3,46 milioni di metri cubi di rifiuti radioattivi costituiti prevalentemente da rifiuti a molto basso e basso livello di radioattività (il 90% circa), per il trattamento e lo stoccaggio di questi rifiuti sono in funzione 30 impianti distribuiti in 12 Stati Membri. Oltre alle centrali nucleari attive per la produzione di energia, in Ue ci sono 90 impianti spenti, 3 in fase di decommissioning e 82 impianti utilizzati in ambito di ricerca, distribuiti in 19 Stati membri (ai 16 già elencati si aggiungono Croazia, Polonia e Svizzera) che comunque producono rifiuti radioattivi. Le stime prevedono entro il 2030 un raddoppio dei rifiuti a molto bassa attività, mentre per le altre classi l’incremento sarà tra il 20% e il 50% e molti Stati si stanno preparando ad aumentare il numero di depositi idonei.
LE ESIGENZE DI GESTIONE – “Nella nostra Penisola – spiega Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente – al di là dei 24 siti temporanei che gestiscono attualmente i rifiuti radioattivi, esistono anche 95 strutture autorizzate all’impiego di radioisotopi e macchine radiogene ben distribuite nelle varie regioni italiane a cui si aggiungono tutte le strutture ospedaliere o di laboratorio che fanno uso di tali macchinari. A livello comunitario occorre da subito trovare accordi internazionali per gestire e stoccare i nostri piccoli quantitativi di rifiuti ad alta attività, quelli più pericolosi. A livello nazionale, invece, il tema della gestione dei rifiuti nucleari a media e bassa attività deve essere accompagnato, da parte delle istituzioni, da una comunicazione e informazione chiara e trasparente nei confronti dei cittadini”.