Da marzo scorso a oggi il pallone è stato sventrato dalla pandemia: è cambiato tutto, dal concetto di partite in casa all'impatto dei tifosi, fino alle regole da rispettare per poter scendere in campo. Un bilancio è giocoforza impossibile, l'obiettivo è tornare quanto prima ad avere una dimensione collettiva
Le ultime immagini sono piuttosto sfocate. Nella prima c’è il ds del Parma Daniele Faggiano che parla fitto al cellulare. Passeggia sull’erba verde del Tardini, con la mano libera che si muove di continuo e un’espressione incredula stampata sulla faccia. La voce che esce dal microfono del telefono gli ha appena comunicato che, alla fine, la partita contro la Spal si giocherà. Anche se in un primo momento si era pensato a una sospensione del match. Anche se le squadre sono rientrate negli spogliatoi già da 75 minuti, con la telecamera di Dazn che continua a inquadrare un pallone immobile. Nell’ultimo fotogramma si vede Paulo Dybala che corre con le braccia aperte verso la linea del fallo laterale sinistro. Si è appena esibito in balletto nel cuore dell’area di rigore dell’Inter, una danza leggera e letale che si è conclusa con un tocco di esterno sinistro buono per spedire alle spalle di Handanovic il gol del 2-0.
Per tutto il pomeriggio i telecronisti hanno ricordato i prossimi appuntamenti dal calendario. Anche se il futuro era già diventato un concetto piuttosto confuso. L’8 marzo del 2020 è stato l’ultimo giorno in cui il calcio si è manifestato nella forma in cui eravamo abituati a vederlo. Nonostante gli spalti deserti, nonostante i termoscanner montati all’ingresso. Un turno di campionato che è stato come l’ultimo bacio prima dell’addio. Un gesto rassicurante ma allo stesso tempo meccanico, insapore, quasi goffo. È in quel pomeriggio di un anno fa che il calcio si è relativizzato, che è stato declassato da ossessione a passione semplice. Perché l’idea che il pallone potesse continuare a rimbalzare mentre il Governo pensava a un lockdown totale appariva folle e grottesca. Il gol di Paulo Dybala all’Inter è stato l’ultimo highlight proiettato per ben 103 giorni, l’ultimo appiglio alla quotidianità prepandemica prima che il coronavirus mettesse in pausa le nostre vite. Mentre le persone si ammassavano nelle stazioni in cerca dell’ultimo treno per casa prima del lockdown, mentre le mascherine venivano vendute a prezzi osceni, mentre programmi trash si esibivano in tutorial improvvisati su come lavarsi le mani il tifo si è affievolito ed è stato sostituito. Il camice bianco dei virologi al posto delle maglie colorate dei club. Non si supportava più la propria squadra, ma un primario fino a quel momento sconosciuto, stando ben attenti a sostenere le opinioni scientifiche che più si avvicinavano ai propri interessi.
Un anno fa il calcio ha smesso di essere fenomeno collettivo per diventare espressione individuale. Un processo che dodici mesi dopo sembra quasi irreversibile. Il pallone ha smesso di rappresentare l’eccezione che conferma la regola. Anche i calciatori sono stati messi in smartworking, con le dirette che li riconsegnavano sudaticci e ansimanti nei salotti delle loro case. I palinsesti sono stati svuotati, ma si è dovuto pensare a riempirli di nuovo. Con collegamenti streaming, con approfondimenti del passato che diventavano un anestetico buono per sopportare l’assenza di novità. La ripresa è stata molto meno esaltante del previsto. Colpa di quello che in Germania hanno chiamato “football light”, ossia un progressivo distaccamento del tifoso dalle sorti del proprio club. Tutto è diventato improvvisamente annacquato. E anche un po’ finto. La compressione dei calendari ha provocato la rottura degli steccati fra una giornata e l’altra. Si è giocato tutti i giorni, a volte senza che i tifosi riuscissero a ricordarsi precisamente per cosa. La liturgia del calcio ha lasciato spazio alla routine, alla ripetizione meccanica di riti nei quali non credeva più nessuno. La sostituzione del divano al seggiolino dello stadio ha velocizzato il passaggio da sport a entertainment. Non c’è più epica, solo storytelling. E sono sorti problemi tutti nuovi.
L’assenza del pubblico ha provocato un cortocircuito. Per il tifoso che era stato trasformato in cliente gli spalti vuoti sono respingenti. Si è capito che tutto lo spettacolo si fondava su un atto di fede: quello di chi quei seggiolini decideva di riempirli. Tutto si basava sulle inquadrature delle loro facce, sui loro cori che sgorgavano gli altoparlanti dei televisori. Il contorno è diventato improvvisamente piatto forte, la comparsa si è rivelata protagonista. Messo a nudo, spogliato di quelli che erano considerati quasi orpelli, il calcio era quasi disturbante. Perché la tecnologia, le statistiche, la definizione sempre più alta dei televisori stonava con i suoni che riempivano i salotti, con le voci dei calciatori, con i colpi al pallone, con l’immobilismo delle tribune. Si è capito subito che quello che mancava era proprio l’aspetto alla base del calcio, la sua socialità, il suo trasformare l’io in noi. Assenze che la tecnologia non poteva colmare, ma che si si sono provate a riempire proprio con la tecnologia. E allora ecco le grafiche per coprire gli spalti vuoti, ecco i cori registrati per spingere la squadra di casa, ecco i cartonati, poi i pupazzi (in un caso addirittura bambole gonfiabili), ecco le facce dei tifosi collegati dalle proprie abitazioni per cercare di attutire il rumore straziante di quell’assenza di colori e di suoni. Il ritorno in campo ha rovesciato il tavolo. Squadre che lottavano per lo scudetto come la Lazio si sono liquefatte improvvisamente.
Le Coppe europee, giocate in campi neutri e in stadi bolla, hanno portato al superamento della regola base dei trofei continentali: il fattore campo. Ma hanno anche affermato l’indipendenza dei club rispetto ai propri tifosi. Un divario reso ancora più evidente per i fan che, mentre le loro squadre vincevano campionati e coppe, sono stati condannati al coito interrotto dell’esultanza personale e non collettiva, con i metri quadri delle loro case che si sovrapponevano alle tradizionali piazze in cui poter festeggiare. L’ultimo anno per il calcio è stato tutto tranne che una festa. È stata una stagione dove tutti sono andati avanti senza entusiasmi solo per non dover chiudere baracca, per non dichiarare fallimento. La pandemia ha colorato di rosso i bilanci, ha stravolto il calciomercato. Club che per anni si sono abbuffati di colpi milionari sono stati ridotti a squadre costrette a vendere prima di comprare (come il Barcellona) oppure a vendere e basta (come il Real, che ha ceduto 12 calciatori senza comprarne neanche uno). Tutto è cambiato, insomma. Tranne le polemiche. Quelle sono rimaste le stesse. Anzi, sono diventate ancora più stonate e surreali. Come quelle sui tamponi, con Juventus e Napoli, con Lazio e Torino come attori che si muovono in un teatro dell’assurdo. Il calcio della pandemia è ferito ma respira ancora. Lotta per non scomparire, per restare la cosa più importante fra le cose meno importanti. Ma soprattutto il calcio della pandemia si basa su una promessa: cancellare gli ultimi 12 mesi e recuperare la sua dimensione collettiva. Anzi, tornare se stesso. Magari un po’ più povero, ma molto più sincero.