Posso dire che considero l’idea burocratica delle “quote rosa” un’offesa per le donne? Che festeggiare con tanto di mimose l’8 marzo la “giornata delle donne” è soltanto una spudorata ipocrisia? Che trovo altamente irritante il modo corporativo con cui la donna in carriera Lilli Gruber pensa di promuovere il principio della parità di genere? Tutte ritualità per salvarsi l’anima (e prenotare un posticino nel paradiso del politicamente corretto), sapendo benissimo che ci troviamo nel bel mezzo di una restaurazione del dominio patriarcale; iniziata nel preciso istante in cui si esauriva la capacità di lotta del movimento delle donne, sviato dalle mistificazioni ideologiche egemoni a partire dagli anni Settanta. Quando la combattività collettiva dell’altra metà del cielo venne disarticolata con la seduttività mendace delle promesse di carriera e successo a portata di mano, facendo proprio un individualismo aggressivo di stampo maschilista.
Del resto l’icona di donna maschilizzata Margaret Thatcher lo aveva teorizzato: la società non esiste, la vita è una giungla dove vince il più forte e il femminile doveva corazzarsi con l’aggressività di chi è “più uomo dell’uomo”: la cosiddetta “uoma”, la cui sessualità a tassametro diventa merce per scambi negoziali. Declinazione sul rosa della parola d’ordine “imprenditorializzatevi”, che affogava nell’opportunismo solidarietà di classe e combattività dei lavoratori, lusingati dalle false promesse di più libertà e più soldi.
Come ha scritto la filosofa Maria Grazia Turri nel suo Manifesto per un nuovo femminismo (Mimesis 2013), “dopo più di trent’anni di una cultura che esalta con tutti i mezzi a disposizione l’individualismo non possiamo non pensare che i nostri comportamenti, le nostre esperienze e le nostre riflessioni ne siano rimasti immuni, così il femminismo non ne è stato esentato e ha alimentato, dato vita e via libera a forme articolate, diffuse e permanenti di individualismo e al suo risvolto psicanalitico, il narcisismo”.
L’esatto opposto di quella femminilizzazione della società e delle organizzazioni, su cui si continuò a sproloquiare per decenni. Mentre il quadro dei rapporti politici di genere evolveva in un senso obbligato: la richiesta sottomessa di una parificazione tra i sessi, affidata alla benevola concessione del genere dominante. In un’impostazione – come si diceva – burocratica e corporativa, come se la questione fosse un dato numerico e il femminile una rilevazione anatomica; subalterna ai rapporti di forza ricostituiti dalla messa fuori gioco di un soggetto collettivo organizzato e battagliero. Che dai primi del Novecento aveva conquistato sul campo i propri diritti mediante le proprie lotte. Non grazie a ipotetiche regalie. Simmetricamente con il movimento dei lavoratori, che otteneva il riscatto strappandolo alla controparte. In fabbrica e nella società.
Mentre le impostazioni supplichevoli, dimentiche della dura legge di una società capitalistica (in cui “nessun pasto è gratis”), continuano a perpetuare lo scandalo delle donne prime vittime delle dinamiche diseguagliatrici che caratterizzano questi decenni. Acuite da una pandemia che colpisce più di tutti la donna lavoratrice. Come ci ricordava uno degli ultimi numeri di MicroMega (a proposito, bentornata vecchia Mm, alla faccia della coppia Elkann-Molinari): “secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto europeo per l’uguaglianza (Eige), nel nostro Paese il differenziale occupazionale tra uomini e donne è di 20 punti percentuali: se il tasso di occupazione complessivo delle persone (comprese tra 20 e 64 anni) è del 63 per cento, quello femminile si ferma al 53 per cento mentre quello maschile si attesta al 73″.
Una situazione che non si risolve con le prediche ma facendosi valere. Collettivamente.