di Carblogger
Non mi avrete mai nel vostro mondo chiuso di Apple, dicevo ai miei figli quando hanno scoperto (purtroppo per le mie finanze) l’iPhone. Anche perché, più che per Android, sono per non spendere troppo per tecnologie che invecchiano prima di noi: l’obsolescenza programmata è come le varianti del virus, una certezza. Ma se Apple facesse adesso un’automobile, cosa potrei dire ai miei ragazzi che nel frattempo hanno preso la patente?
Di Apple car si parla da tempo, così come del Project Titan. Da una macchina vera e propria a guida autonoma, a un sistema di self driving da vendere a terzi. Tanti stop and go, fino a un accordo dato per fatto un paio di settimane fa tra la società di Cupertino e il gruppo Hyundai, con inchiodata finale del costruttore di automobili. Che si è tirato fuori come ha dovuto fare subito dopo Nissan, il cui ceo aveva incautamente risposto a una domanda di essere aperto ad accordi con aziende del tech.
Certo, come tutti. Ma non con Apple perché, par di capire, Apple vorrebbe chiamare con il proprio nome le auto assemblate in Corea o in Giappone o su un’altra classica linea di montaggio e mosse da un software a forma di mela. A ragione.
Comprereste un’auto con il marchio Apple bene in vista? L’affare è sicuro per un brand identitario che crea appartenenza, per un brand di quella Silicon Valley trasformata da culla libertaria nel più formidabile e opaco venditore al mondo. Dove finanche “alici fritte diventano cibo di lusso”, come annota Anna Wiener nel suo libro “The Uncanny Valley” (“La Valle Oscura”), da leggere perché è scritto dall’interno del mondo delle start up e di uno stile di vita in cui lei si è immersa cinque anni prima di tornare nella sua New York, accontentandosi di lavorare per il New Yorker.
Credo che Apple alla fine farà una sua auto elettrica e automatizzata, con o senza Hyundai o Nissan. Magari con un colosso della componentistica come Magna (meglio di Foxconn, anche per convenienza politica con i neutrali canadesi), società a due passi da Toronto che non ha nulla da perdere in fatto di identità e di mercato al contrario di un costruttore di auto. Eppoi diciamola tutta: cosa non potrebbe fare l’azienda principe della Silicon Valley – 45 anni il prossimo 1 aprile, e non è mai stata uno scherzo – che poco più di sei mesi fa ha toccato una capitalizzazione di oltre duemila miliardi di dollari?
Apple è un mistero della fede come Tesla, ricca di fan adoranti. Come non lo sono Google, che dopo il concept di una Google Car avrebbe virato con la sua divisione Waymo sullo sviluppo del software della guida autonoma da vendere a terzi, o Microsoft o Amazon, tutti al top nei rispettivi settori. Ma senza quella emanazione di assolutezza che distingue dal resto del mondo. A me può anche non piacere, ma questo è ciò riesce a spedire un prodotto anche in sold out.
Oggi poi per vendere bisogna anche sapersi raccontare da ambientalisti visionari che salvano il pianeta, come riescono a modo loro Tim Cook ed Elon Musk. No? Prendete Jeff Bezos, il più bravo di tutti negli affari (e infatti è anche il più ricco): primo su 1.200 top manager nella classifica di Harvard Business Review dal 2014 (2020 non pervenuta, avrebbe vinto comunque facile nell’anno del Covid), precipita all’87esimo posto (2015, se ne è accorto Quartz) quando sono state prese in esame le voci di performance “social and environmental”.
Comprereste un’auto nuova da Tim Cook? Rinunciando a un po’ di ideologia, ora lo so cosa direi ai miei figli: Vespa is my favorite car. Off topic.