Le emissioni annuali di anidride carbonica alla base dei cambiamenti climatici e legate al ciclo di vita della sola carne bovina superano i 18 milioni di tonnellate, per un danno di oltre un miliardo di euro: si tratta di una quantità di gas climalteranti uguale a quella emessa dalle più grandi e inquinanti centrali a carbone in Europa. Così, la filiera delle carni di bovino, maiale e pollo arriva a causare, in un anno, più di 98mila tonnellate di Pm10 equivalenti. E la formazione di particolato porta con sé un danno economico di oltre 3,8 miliardi. C’è questo e altro dietro quei 36,6 miliardi di euro, stimati come valore del danno che ogni anno il consumo di carne genera, a causa degli impatti ambientali e sanitari e che ricade sulla collettività (605 euro per ogni singolo cittadino). Nello studio indipendente realizzato per LAV (Lega Anti Vivisezione) dalla società di consulenza Demetra, presentato in esclusiva da ilfattoquotidiano.it (e offerto in anteprima ai suoi Sostenitorise non sei ancora Sostenitore scopri come diventarlo), i costi ambientali sono stati stimati, analizzando l’intero ciclo di vita della carne (Life Cycle Assessment – LCA), convertendo le emissioni generate in tutte le fasi (allevamento, macellazione, lavorazione, imballaggio, distribuzione, consumo e trattamento reflui) in costi economici per la società e includendo anche quelle generate dalla produzione di energia necessaria nei varie fasi.

GLI IMPATTI MAGGIORI – Tra le undici categorie di impatto, pesano soprattutto quelle relative a cambiamenti climatici, acidificazione terrestre, formazione di particolato, eco-tossicità terrestre e occupazione di suolo. Sono stati utilizzati modelli scientifici accreditati che mettono in relazione una certa emissione di un inquinante all’impatto prodotto sull’ambiente e sull’uomo. La carne di bovino è quella con l’impatto ambientale che genera il maggior costo sulla società (stimato in 1,35 euro ogni 100 grammi), ma la categoria che pesa di più è la formazione di particolato, responsabile per il 28% del costo totale. A seguire, acidificazione (22%), consumo di suolo (19%) e cambiamenti climatici (14%). La formazione di particolato è anche tra le prime cause dei costi sociali della produzione delle altre carni: pari al 18% e al 15% del totale rispettivamente per la carne di maiale e di pollo. Per entrambe, però, al primo posto c’è l’eco-tossicità terrestre, che genera un costo per la società di 17 centesimi ogni 100 grammi di carne di maiale (34% del totale) e 24 centesimi ogni etto di carne di pollo (50%). Occupazione di suolo agricolo, acidificazione terrestre e cambiamenti climatici giocano un ruolo di primo piano anche nel costo per la società generato dalla produzione di carne di maiale e pollo, con percentuali che variano tra il 10 e il 18%.

I CAMBIAMENTI CLIMATICI – Per calcolare il costo nascosto legato alle emissioni di gas a effetto serra, nello studio è stata usata la metodologia proposta nell’Environmental Prices Handbook, che tiene conto sia dei danni causati dai cambiamenti climatici che del costo di abbattimento delle emissioni. La fase di allevamento è quella più rilevante, con un contributo alle emissioni di gas serra che va dal 66% per la carne di maiale lavorata a un massimo del 77% per quella di bovino, la più impattante a causa della fermentazione enterica dei ruminanti (a cui vanno attribuite le emissioni di metano) e alla minor resa di conversione alimentare e di macellazione. Le carni di maiale e pollo hanno un impatto di circa il 30% rispetto a quella di bovino. Il primo responsabile delle emissioni di gas a effetto serra del maiale è però la sua dieta: il 64% delle emissioni è dovuto alla produzione e trasporto dei mangimi. La farina di soia pesa per quasi un terzo, sebbene l’alimento rappresenti meno del 10% della dieta dell’animale, perché quella data come alimento a maiali e polli arriva quasi esclusivamente da Argentina e Brasile, dove foreste vergini vengono distrutte per far posto a colture agricole. Il pollo, infine, è l’animale che genera meno emissioni di gas a effetto serra per 100 grammi di carne macellata. In questo caso l’87% degli impatti è dovuto all’alimentazione, farine di soia e olio di palma giocano un ruolo di primo piano. Nel confronto in peso con le alternative vegetali, le carni risultano avere un potenziale di riscaldamento globale tra le 10 e le 50 volte quello dei legumi. Un gap che aumenta quando il confronto è fatto sulle proteine prodotte, dato l’alto contenuto proteico dei legumi.

LA FORMAZIONE DI PARTICOLATO – L’allevamento è la fase più impattante anche nella formazione di particolato, con un contributo tra il 70% e l’80% del totale. Principale responsabile è l’emissione di ammoniaca in atmosfera (75% per i bovini, ad esempio), che avviene sia nella gestione delle deiezioni che nella fertilizzazione dei campi per l’alimentazione degli animali. Seconda causa di formazione di particolato, sono le emissioni di ossidi di azoto (12% per i bovini), originate principalmente dalla combustione di combustibili fossili nei macchinari agricoli, nei trasporti o nella produzione di energia. In un anno, le emissioni associate al ciclo di vita della sola carne bovina fresca consumata in Italia equivalgono a oltre 54 kilotonellate di Pm10, per un costo potenziale annuale di oltre 2 miliardi. Piselli e soia causano un impatto tra l’1% e l’8% di quello generato dalle carni. “Il ruolo giocato dal settore agroalimentare nell’inquinamento da particolato – spiegano i ricercatori – si è potuto chiaramente osservare nel Nord Italia durante il recente lockdown a causa del Covid-19, che ha indotto una forte riduzione delle altre fonti di particolato come il trasporto su strada e le produzioni industriali”, ma non quelle del settore zootecnico.

L’ACIDIFICAZIONE TERRESTRE – L’abbassamento del pH del terreno (con il conseguente danneggiamento dei raccolti) dovuta alla conversione delle emissioni in acido solforico e acido nitrico che si depositano sui terreni o sulla vegetazione, anche sotto forma di piogge acide è il secondo impatto più evidente nel ciclo di vita dei bovini. Anche in questo caso la fase più inquinante è quella dell’allevamento (contribuisce tra il 75 e l’80%) e, di nuovo, la maggiore responsabile è l’ammoniaca emessa dalla gestione (ricovero e stoccaggio) delle deiezioni animali e usata nella fertilizzazione dei campi destinati alla produzione dell’alimentazione dell’animale. D’altronde, il 60% delle emissioni di ammoniaca totali in Italia sono dovute alla gestione delle deiezioni animali e, in linea statistica, quasi il 60% delle emissioni dell’intero ciclo di vita del bovino derivano dalle deiezioni e il 33% dalla fertilizzazione dei campi. Il contributo relativo all’acidificazione dei legumi è minimo rispetto a quello delle carni. E, su base proteica, piselli e soia hanno un impatto potenziale sull’acidificazione terrestre che va da un minimo dell’1% rispetto alla carne di bovino a un massimo dell’8% rispetto alla carne di pollo.

ECOTOSSICITÀ TERRESTRE – Se c’è una categoria ambientale che riporta significativi impatti per tutte le carni prese in esame, almeno stando ai dati medi, è quella dell’ecotossicità terrestre. In un anno i danni economici associati al ciclo di vita delle varie tipologie di carne, per quanto riguarda l’ecotossicità terrestre, valgono oltre 4,4 miliardi di euro. Gli impatti sono dovuti principalmente ai pesticidi usati in agricoltura, creati appositamente per uccidere organismi che rappresentano una minaccia per il campo o gli animali allevati. Ma le tossine possono anche accumularsi negli animali destinati alla tavola, creando possibili danni alla salute anche umana. In questo caso è la carne di pollo la più impattante, seguita dal maiale, mentre il bovino, per una volta, risulta esserlo (relativamente) meno. La ragione di questo andamento è dovuta all’uso di farine di soia dal Sudamerica e olio di palma dal sudest asiatico nell’alimentazione dei capi allevati. Quasi il 100% dell’impatto del pollo è infatti dovuto a queste due colture: 70% alla soia dall’Argentina e 27% dall’olio di palma da Indonesia e Malesia. Per la carne di bovino, invece, il contributo più significativo deriva dai pesticidi utilizzati per coltivare il mais. Anche per l’ecotossicità, l’impatto dei legumi è decisamente inferiore a quello delle carni che, in termini proteici, impattano dalle 30 alle quasi 500 volte in più (per la carne di pollo) rispetto ai piselli.

OCCUPAZIONE DI SUOLO AGRICOLO – L’occupazione di suolo agricolo rappresenta tutti quei terreni che sono stati sottratti alla natura per fare spazio a colture o allevamento necessari alla produzione della carne. La carne di bovino è quella che richiede più terre, principalmente per la minor efficienza di conversione. Quasi il 50% dell’impatto deriva dal sovescio, ovvero la tecnica agronomica che consiste nel sotterrare colture per mantenere la fertilità del terreno. Il resto dell’impatto è dovuto alle altre colture direttamente coltivate per alimentare gli animali: mais, frumento, soia, ecc. Lo stesso discorso, in maniera più limitata, vale per i maiali e i polli con le colture di mais, orzo, soia e frumento ad occupare il grosso degli impatti. Piselli e soia risultano consumare meno suolo rispetto alle carni, sia a parità di massa che a parità di proteine. Sebbene la differenza sia più ridotta rispetto alle altre categorie d’impatto, le carni usano in media tra le 3 e le 12 volte il suolo agricolo usato per coltivare i legumi. Anche in questo caso, la soia risulta la fonte più sostenibile di proteine: 0,8 metri quadrati di suolo sono consumati per 100 grammi di proteine prodotte, confrontate ad esempio ai 12,5 metri quadrati necessari per produrre 100 grammi di proteine da carne di bovino.

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