È quanto emerge dalle testimonianze finora raccolte - inclusa quella di Rocco Leone, vicedirettore del Pam in Congo - e dalle indagini. La Procura di Roma cerca di capire se ci siano state negligenze nel sistema di sicurezza che doveva proteggere i due italiani
Uccisi dai colpi sparati dai sequestratori nel disperato tentativo di fuggire, durante la sparatoria seguita al loro rapimento. È quanto finora hanno ricostruito le indagini e le testimonianze relative alla morte dell’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio e del carabiniere della sua scorta Vittorio Iacovacci, entrambi uccisi insieme al loro autista Mustapha Milambo lo scorso 22 febbraio mentre con un convoglio del Pam (il Programma alimentare mondiale dell’Onu) stavano attraversando il Nord Kivu. Ovvero la regione più pericolosa di tutta la Repubblica democratica del Congo, infestata, specialmente al poroso confine con Rwanda e Uganda, da bande di miliziani, banditi e presunti jihadisti.
Mentre proseguono tra Italia e Congo le indagini sull’omicidio dell’ambasciatore e del carabiniere, dalle testimonianze raccolte emerge che i due non sono stati uccisi da ‘fuoco amico’. Dal racconto di uno dei superstiti, Rocco Leone, il vicedirettore del Pam in Congo, sentito nell’ambasciata di Kinshasa grazie alla collaborazione di Onu e Farnesina, emerge che durante la sparatoria del 22 febbraio, tra ranger e sequestratori, Iacovacci avrebbe tentato di fuggire proteggendo Attanasio per metterlo in salvo dai colpi, portandolo fuori dalla linea di fuoco, ma i due sarebbero stati a quel punto colpiti dal gruppo di sequestratori, di cui non è ancora chiara la natura.
L’inchiesta di piazzale Clodio viaggia su un doppio binario: da una parte proseguono in Congo le verifiche sull’omicidio. Dall’altra si cerca di capire se ci siano state negligenze nel sistema di sicurezza che doveva proteggere i due italiani. Da una prima ricostruzione, il giorno dell’attacco al convoglio su cui viaggiava l’ambasciatore, interagivano i due diversi e dettagliati protocolli di sicurezza dell’Onu e del Pam. Gli inquirenti stanno cercando di ricostruire tutti i passaggi legati alle procedure di sicurezza, insieme ai due organismi internazionali che, assicura chi indaga, si sono mostrati estremamente collaborativi. Oltre ai funzionari del Pam, in Italia è stata sentita anche la moglie dell’ambasciatore Zakia Seddiki, mentre proseguono le verifiche e le acquisizioni dal tablet del diplomatico. Nel fascicolo della procura di Roma, per ora a carico di ignoti, si indaga per attentato con finalità terroristiche e omicidio colposo. Coordinano le indagini il procuratore Michele Prestipino e i pm Sergio Colaiocco e Alberto Pioletti.