La prima cosa che colpisce leggendo “Il libro delle case” (Feltrinelli, 2021) di Andrea Bajani è il forte effetto di realtà provocato da una sorta di sottrazione della figura umana, che quasi mai ha sembianze definite e descritte ma è sempre un nome, “padre”, “madre”, “sorella”, “moglie”, quindi sta tutto dentro la parola, è da lì che s’irradia la sua presenza nel mondo. Protagonista è Io, prima bambino nella Casa del Sottosuolo, poi in quella sotto la montagna, in quella del sesso, dell’adulterio, del materasso e via dicendo. Case della memoria, compresa la Casa dei ricordi fuoriusciti, una sorta di oblio che lavora segretamente a sua insaputa, nel sonno e da sveglio. Le case raccontano gli anni, gli snodi esistenziali, i sentimenti prevalenti, l’amore, l’amicizia, il dolore, la felicità. Eppure, nonostante questa spoliazione, e attraverso una scrittura prevalentemente descrittiva, che racconta gli ambienti domestici, la loro anima segreta, e nomina le geometrie delle stanze, la loro forma dello spazio, il grado di luminosità, l’arredo, che riesce a “imporre il gusto” in una vita, lo scrittore raggiunge proprio in virtù di questa assenza di rapporti e di voci, di rare presenze verbali, ma grazie alla memoria di essi, a quello che di umano vi resta dentro, dei rapporti, in senso etologico e di classe, forti livelli di esistenzialità; un lavoro che aveva già iniziato in “La vita non è in ordine alfabetico” e continuato con il bellissimo “Un bene al mondo”, usciti entrambi da Einaudi, un decisivo cambio di passo nella produzione di uno scrittore con una precisa e originale fisionomia letteraria, probabilmente il migliore, della sua generazione. Gli stessi oggetti sono la lingua del libro, come per esempio quello della finestra in Casa dell’adulterio, che ha “un alfabeto ortogonale, prevede movimenti in orizzontale e verticale”, le nature morte degli interni meticolosamente descritte come viventi, così come la scelta dell’arredo che corrisponde a diversi ambienti sociali e appartenenze di classe, un’eterogeneità di stili, condizioni, posizioni nelle toponomastiche provinciali o metropolitane di cui il libro è fortemente permeato al livello della sensorialità, della visività, e che sono le tante case delle tante vite in una esistenza metamorfica segnata dai traslochi dell’immaginario ma anche pezzi del Paese reale, dell’Italia nella loro esistenza materiale fatta di strade, ferrovie, quartieri, gente.
Ne viene fuori un romanzo di formazione autobiografico, se per autobiografico si intende una biografia generazionale scandita nei suoi riti classici, uguali per tutti, l’infanzia lacerata, gli anni giovani e promiscui dell’università, il primo amore, il matrimonio; ho detto romanzo, ma forse più che un romanzo è una serie di racconti di osservazione a posteriori della vita passata, oppure un catalogo, un archivio, una classificazione di stati, di condizioni umane, i suggeritori di questa letteratura forse sono Peréc e Calvino, come qualcuno ha anche scritto, forse no, oppure a metà, perché comunque sì è vero che qui si sottrae anche il dato antropologico (“il luogo è una cittadina di provincia, il fondo indistinto dell’Italia settentrionale, una cittadina equivale a un’altra cittadina a un’altra cittadina di provincia) ma non quello storico, sociale, e nemmeno l’epoca, contrassegnata da due presenze problematiche, quelle degli omicidi di Aldo Moro e Pier Paolo Pasolini, due morti scandalose, brutali, che aprono a un cambio di stagione in Italia e nel mondo Occidentale, e che diventano mitologia di un’epoca in chi non le ha vissute al presente.
Dentro tutto questo serpeggia anche un racconto etologico, animale (“la vera lingua della specie, quella con cui l’animale si esprime e il cucciolo si tende”), a volte brutale dove Padre è l’elemento perturbante, il “veterano dei pasti compromessi”, quello che muove la vita degli altri, ne condiziona il flusso, l’umore, un leitmotiv che innerva tutto il libro, l’esistenza di Io, e ne condiziona le fughe verso altri luoghi dove cerca riparo, dove cerca asilo per entrare anche lui nella vita degli adulti. La casa è anche quella della scrittura, della letteratura (nel libro c’è anche una Casa delle parole, dove “nessuno suona perché nessuno sa che c’è”) che si compone nel tempo e nella lentezza, nei tanti giorni, come gli ha insegnato la tartaruga, l’unica abitante della stessa casa per sempre, la sua, che il protagonista incontra gattonando bambino nella Casa del sottosuolo, e irradia tutto il libro della sua forte presenza metaforica, che “ci è andata in giro portandosela dietro”. La scrittura nata nella Casa degli appunti, il catalogo di tutte le case, la “casa delle parole semovente” dove è nato tutto, e gli appunti “poi si avviano per la strada da cui nessuno è tornato, quella che porta a nuova vita dentro una pagina stampata” e diventa scrittura. Una scrittura capace di nominare l’innominabile, la vertigine invisibile della classicità dei sentimenti, quel luogo dell’immaginario dove poeticamente abita l’uomo.