Televisione

Chissà perché il livello dei programmi tv si abbassa se si affronta il tema del sesso

Il canale Nove del digitale terrestre (e la relativa piattaforma Discovery Plus) offre egregi programmi: da Fratelli di Crozza ad Accordi&Disaccordi a La Confessione con Peter Gomez, solo per citarne alcuni, ma anche numerosi “mockumentary” e reportage su reali fatti di cronaca nera acquistati da network statunitensi, ottimi servizi giornalistici, fino agli ormai immancabili programmi culinari. Il livello si abbassa paurosamente, però – chissà perché – se si affronta il tema del sesso.

E proprio in questi giorni è esplosa la bomba Naked Attraction, ennesimo format di origine britannica servito in salsa italiana. Il solito programma (come lo erano ad esempio l’esteticamente ripugnante Undressed o il falsissimo L’isola di Adamo ed Eva) fondato sull’ipocrisia del “vorrei ma non posso”. In sintesi, in Naked Attraction c’è un un candidato, etero o Lgbt, che – guidato dalla conduttrice Nina Palmieri, ex Iena raddrizza-torti oggi votata alla (falsa) liberalizzazione sessuale di alcuni ragazzotti allo sbaraglio – deve scegliere un partner con cui far trionfare l’amore dopo averlo visto nudo. Le possibilità di scelta sono sei, laddove ognuno degli offerti è chiuso in una specie di inquietante loculo colorato che pare quello, in versione verticale, destinato all’ipersonno del tenente Ellen Ripley sull’astronave Nostromo di Alien.

Solo che i sei non arrivano dal pianeta Thedus, ma da Genova o Torino eccetera. I pretendenti, completamente nudi, mostrano inizialmente al concorrente e alla conduttrice le parti basse, poi quelle alte, ma non il volto. E non parlano. Gesticolano. Insomma, si gioca alla cieca valutando con la bella Palmieri, manco si fosse al bar Sport dopo troppi spritz, i genitali della lei o del lui di turno con commenti di questo tenore: “i testicoli ballonzolano, ah ah”, oppure un urlato “oddio!” guardando il pene del ragazzo di colore (che dev’essere tradizionalmente superdotato) “che bel prepuzio circonciso” o, “wow – la locuzione fumettara è onnipresente, stucchevole – la vulva è depilata” (si usano termini medici come vulva, vagina o pene). E ancora “a me piace col pelo”, “a me senza”, e via con questi graziosi e raffinati commenti.

La cosa più insopportabile, però, è che “i peni e le vagine” – come li chiamano loro – sono pixellati, dunque lo spettatore non vede un accidente. Ma allora, se si tratta davvero di un programma trasgressivo dove finalmente, come si afferma nella presentazione del format, “tutti facciamo sesso, una cosa naturale, perché non possiamo parlarne con onestà e oggettività?”, che senso ha censurare “i cazzi e le fighe” come li chiamiamo tutti quotidianamente? E, invece, lasciare campo libero “a tette e culi”? Ovvio, direte, perché in tv certe parti intime non si possono mostrare. Ma tutto ciò non sa di finto, di contraddittorio, di ipocrita?

Il programma ha, inoltre, bisogno di un’ennesima giustificazione: noi – dicono gli autori del format – facciamo vedere anche concorrenti un po’ sovrappeso oppure che hanno pessimi rapporti con il proprio corpo (loro, però, almeno nella prima puntate, non sono mai fra i prescelti…). Politicamente correttissimo. Peccato che ciò avvenga non secondo la filosofia delle femministe post-porno come Diana Torres & compagne, ma in base a una motivazione che suona apertamente necessaria a fornire una giustificazione nazional-popolare.

Scrive giustamente Mario Manca su Vanity Fair: “Se oggettivizzazione deve essere – perché Naked Attraction è questo, è inutile girarci intorno – viene da chiedersi: non sarebbe il caso di essere onesti fino in fondo visto che, per una volta, siamo ‘liberi’ da quelle sovrastrutture che ci suggeriscono di andare oltre la bellezza per trovare qualcosa di più profondo? Un programma sui nudi, sul voyerismo e sul sesso dovrebbe essere più schietto non solo nelle riprese ma anche nel pensiero, perché se cominciamo a raccontarci scuse pur di apparire bipartisan e corretti anche quando l’intenzione è chiaramente quella di trovare un partner sessuale non ne usciamo più”.

Ancor più pietosa la seconda parte del programma, la coppia che si forma in coda alla trasmissione: una volta eliminati gli esclusi che si allontanano nudi, con la coda (si fa per dire) fra le gambe, la coppia vincente si incammina senza vestiti, mano nella mano, come nel finale di un lacrima-movie, verso un radioso futuro d’amore. La rivedremo, vestita, davanti a un patetico aperitivo (per altro imprendibile, nella realtà, in tempi di Covid) shakerato da un barista-giocoliere che vive, pure lui, il suo piccolo momento di celebrità. Si baciano? Non si baciano? Dipende dai casi.

Peccato che poi una scritta annunci cosa sia accaduto qualche settimana dopo: “la distanza ci ha divisi”, dicono i più (certo c’è la pandemia… bisogna vedere se sono gialli, arancioni più o meno rafforzati o rossi…), mentre pochi altri si promettono un surplus d’amore. Una patetica performance. Tutto finto, ovviamente. Solo un piccolo, triste momento di celebrità. E poi, puf, spariti nel nulla, nel buco nero della quotidianità.

Negli anni Settanta, Pier Paolo Pasolini scriveva che la televisione “ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Un rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali”, anche se lui non rifiutò mai il valore della televisione di per sé, come mezzo tecnico di diffusione culturale. Oggi, quarant’anni dopo, basta saper usare bene il telecomando. E la tv può darci molto. A patto di saperne fruire.