Per quasi un anno il governo Conte è stato bersagliato di critiche per l’uso dei dpcm, i provvedimenti emanati d’urgenza dal presidente del Consiglio con l’obiettivo di rispondere in modo tempestivo al coronavirus. La Lega ha più volte gridato al “golpe giuridico“, Matteo Renzi ha parlato di “diritti costituzionali calpestati” e poi c’è chi, come Sabino Cassese, ha auspicato l’intervento della Consulta. I giudici alla fine sono intervenuti davvero, ma di certo non nel modo in cui costituzionalisti, centrodestra e una parte dell’allora maggioranza si aspettavano. La rapidità della diffusione del Covid ha “imposto” l’uso di strumenti normativi “capaci di adattarsi alle pieghe di una situazione di crisi in costante divenire“, si legge nelle nelle motivazioni della sentenza del 24 febbraio scorso con cui la Corte ha accolto il ricorso del governo contro la legge della Valle d’Aosta che consentiva misure di contenimento diverse da quelle statali. I giudici specificano che in questo giudizio “non è in discussione “la legittimità dei Dpcm”, ma in più punti danno ragione al precedente esecutivo nel modo in cui è stata gestita la pandemia. A partire dal fatto che, a loro parere, le Regioni non possono “interferire legislativamente con la disciplina fissata dal competente legislatore statale”. Di fronte all’emergenza sanitaria, “ragioni logiche, prima che giuridiche radicano nell’ordinamento costituzionale l’esigenza di una disciplina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle persone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività“.
La Consulta riconosce che “l’apporto dell’organizzazione sanitaria regionale, a mezzo della quale lo Stato stesso può perseguire i propri scopi” è “fondamentale”, ma “il legislatore statale è titolato a prefigurare tutte le misure occorrenti“. Ogni restrizione sul Covid, inoltre, si legge ancora nella sentenza, “per quanto di efficacia circoscritta all’ambito di competenza locale, ha un effetto a cascata, potenzialmente anche significativo, sulla trasmissibilità internazionale della malattia”. Non applicare le misure necessarie, quindi, “equivale a permettere che la malattia dilaghi ben oltre i confini locali e nazionali”. Ciò non significa che lo Stato debba fare tutto da solo: la Corte sostiene che serve creare un “percorso di leale collaborazione con il sistema regionale” – espressione peraltro più volte usata dall’ex premier Conte – “prevedendo che i dpcm siano preceduti, a seconda degli interessi coinvolti, dal parere dei Presidenti delle Regioni o da quello del Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome”.
Per la Corte “si tratta di una soluzione normativa consona sia all’ampiezza del fascio di competenze regionali raggiunte dalle misure di contrasto alla pandemia, sia alla circostanza obiettiva per la quale lo Stato, perlomeno ove non ricorra al potere sostitutivo previsto dall’art. 120 Cost., è tenuto a valersi della organizzazione sanitaria regionale”. Ma non è finita qui. I giudici hanno anche rigettato la richiesta della Regione Valle d’Aosta di sollevare la questione di costituzionalità dei decreti legge 19 e 33 del 2020, “sia nella parte in cui tali disposizioni comprimerebbero l’autonomia regionale (artt. 117 e 118 Cost.), sia nella parte in cui darebbero vita a ‘fonti dell’emergenza’, ovvero i dpcm, che non sarebbero contemplate dalla Costituzione”. La risposta della Consulta è netta: “Entrambe le questioni di legittimità costituzionale così prospettate sono, infatti, prive di rilevanza, una volta che si sia accertato che si verte in materia affidata alla competenza legislativa esclusiva statale”.
Tutto questo riguarda “non soltanto le misure di quarantena e le ulteriori restrizioni imposte alle attività quotidiane, in quanto potenzialmente fonti di diffusione del contagio, ma anche l’approccio terapeutico; i criteri e le modalità di rilevamento del contagio tra la popolazione; le modalità di raccolta e di elaborazione dei dati; l’approvvigionamento di farmaci e vaccini, nonché i piani per la somministrazione di questi ultimi, e così via”. A proposito dei sieri anti-Covid, i giudici scrivono che se i piani di somministrazione vengono “eventualmente affidati a presidi regionali, devono svolgersi secondo i criteri nazionali che la normativa statale abbia fissato per contrastare la pandemia in corso”. Motivazioni che si inseriscono nel dibattito sulla necessità di una nuova riforma del titolo V della Costituzione dopo che quella approvata nel 2001 dall’allora centrosinistra ha attribuito alle Regioni le competenze in materia sanitaria.
Le autonomie regionali, ordinarie e speciali, infine, “non sono estranee alla gestione delle crisi emergenziali in materia sanitaria, in ragione delle attribuzioni loro spettanti nelle materie ”concorrenti” della tutela della salute e della protezione civile. In particolare, spetta anche alle strutture sanitarie regionali operare a fini di igiene e profilassi, ma nei limiti in cui esse si inseriscono armonicamente nel quadro delle misure straordinarie adottate a livello nazionale, stante il grave pericolo per l’incolumità pubblica”. Dal punto di vista storico, peraltro, “la profilassi delle malattie infettive è sempre stata appannaggio dello Stato”. Se, dunque, “sono le strutture sanitarie regionali ad adoperarsi a fini profilattici, resta fermo” per la Consulta “che, innanzi a malattie contagiose di livello pandemico, ben può il legislatore statale imporre loro criteri vincolanti di azione, e modalità di conseguimento di obiettivi che la medesima legge statale, e gli atti adottati sulla base di essa, fissano, quando coessenziali al disegno di contrasto di una crisi epidemica”.