"Per quattro settimane siamo rimasti a guardare una curva ormai piatta". Giovanni Sebastiani dell’Istituto per le applicazioni del Calcolo spiega le ragioni di un intervento a gennaio. Dati alla mano: "Ecco perché le stesse soluzioni, applicate oggi, costano maggiori sacrifici"
“Abbiamo perso un mese e mezzo. Anzi di più, perché adesso uscirne richiederà il doppio del tempo”. Ne è convinto Giovanni Sebastiani, matematico dell’Istituto per le applicazioni del Calcolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr). Ma la sua non è un’opinione, a parlare sono i numeri. Da quelli che non abbiamo considerato quando avremmo dovuto, a quelli che ci costringeranno a raddoppiare gli sforzi per abbassare la curva del contagio e riprendere il controllo dell’epidemia. “Siamo in ritardo, ancora una volta”. La conclusione è quella di chi non ha mai smesso di incrociare i dati della pandemia. Dati che a un anno dal primo lockdown hanno molto da raccontare. “Fossimo intervenuti a fine gennaio, un’altra chiusura come quella di Natale sarebbe stata sufficiente”, dice Sebastiani.
Ma andiamo con ordine. Due le principali variabili che hanno portato a questa nuova ondata: “La riapertura delle scuole e la presenza di varianti più diffusive”, spiega il matematico del Cnr, che ai primi di gennaio invocava un rinvio della ripresa delle lezioni in presenza per valutare a pieno efficacia e tenuta delle restrizioni adottate a Natale. In ordine sparso, governo e regioni rinvieranno di alcune settimane, ma nel frattempo i benefici della chiusura natalizia faranno in tempo a esaurire del tutto. “E nonostante fossimo ancora lontani da una situazione sotto controllo, per quasi quattro settimane siamo rimasti a guardare una curva ormai piatta”, ricorda Sebastiani. Eppure già a dicembre uno studio condotto su 131 paesi e pubblicato dalla rivista The Lancet indicava come il ritorno alla didattica in presenza aumentasse del 25% l’indice di contagio (Rt) in appena quattro settimane. “Così nella seconda metà di febbraio già assistevamo ai risultati delle lezioni in presenza, con le terapie intensive che aumenteranno maggiormente nelle regioni che per prime avevano riaperto le aule”, aggiunge.
Ora il governo di Mario Draghi si appresta a reintrodurre misure più severe: cosa aspettarci a questo punto? “Arriviamo in ritardo alle stesse soluzioni che avremmo dovuto applicare a fine gennaio, ma allora sarebbe bastato un periodo più breve. Oggi due settimane non bastano più”, spiega Sebastiani. E mette in fila le percentuali dei positivi sui tamponi molecolari: “Dal 16 percento di metà novembre siamo scesi al 10 percento grazie alle restrizioni. Con le attività pre-natalizie siamo risaliti al 13 e poi col lockdown di Natale giù fino all’8 percento, valore raggiunto il 10 gennaio”. Non si può sbagliare: “Quello è il guadagno che possiamo avere in due settimane, attorno al 5 percento”, chiarisce lo scienziato ricordando che il livello di oggi è dell’11 percento. “Quindi se va bene scendiamo al sei, ma non basta per far ripartire il tracciamento e riprendere le redini del contagio”.
L’obiettivo è noto: una percentuale di test molecolari positivi inferiore al 3%, un traguardo che oggi significa almeno un mese di lockdown severo, con tanto di scuole chiuse. “Meglio una doppia chiusura di due settimane separate da un mese di rilascio, scelta più sostenibile”, propone Sebastiani, che però avverte: “Va pianificata fin da subito e comunicata per tempo, indicando una volta per tutte strategia e risultati da perseguire”.
E non parliamo di risultati inediti nella battaglia contro il Covid. “Alla fine di giugno scorso la percentuale di positivi rilevata dai tamponi molecolari era molto bassa, sotto lo 0,5%”, racconta Sebastiani. “A quel punto si può mappare e sorvegliare preventivamente le categorie a rischio, e soprattutto controllare l’eventuale sviluppo di altre varianti. Una condizione decisamente più favorevole anche per la campagna vaccinale”, aggiunge. “Ma dobbiamo acquisire una tempestività d’azione che ad oggi continua a mancare: la politica deve essere capace di attuare le restrizioni anche quando sono impopolari perché ancora non sembrano servire”.