Importanti membri dell’Unione Europea - Italia inclusa - e gli Stati Uniti attaccano il Cairo per i trattamenti che riserva a persone Lgbt, giornalisti, politici e avvocati. Ma il regime, a fronte di queste accuse, già in passato ha replicato che non vuole ingerenze esterne. Intanto una testimonianza dal carcere di Tora getta ombre sui metodi utilizzati nella più grande e discussa prigione egiziana
“Siamo profondamente preoccupati per come l’Egitto sta applicando la legislazione sul terrorismo contro gli attivisti per i diritti umani, persone Lgbt, giornalisti, politici e avvocati”. Le parole pronunciate a Ginevra da Kirsti Kauppi, ambasciatrice finlandese all’Onu, hanno irritato il presidente al-Sisi e il governo egiziano. Come già accaduto in passato, il Cairo ha risposto con sdegno alla dichiarazione della Kauppi e soprattutto al documento di condanna firmato da 31 Paesi tra cui l’Italia, importanti membri dell’Unione Europea e gli Stati Uniti. I rappresentanti dei 31 denunciano “lo spazio limitato per la società civile e l’opposizione politica in Egitto e le modalità attraverso cui la legislazione antiterrorismo viene applicata nei confronti dei movimenti pacifici a difesa dei diritti umani”. L’Egitto, disapprovando la presa di posizione e quella che considera un’invasione di campo, ha ribadito la sua sovranità condannando la “pericolosa ingerenza”.
Stuzzicato già nel recente passato da accuse di antidemocraticità, il regime egiziano ha sempre replicato intimando, sostanzialmente, di farsi i fatti propri un po’ a tutti. Per al-Sisi e i suoi fedeli collaboratori la sconfitta di Donald Trump alle presidenziali americane del novembre scorso è stata una pessima notizia. Pochi giorni prima del voto un gruppo di 54 membri Democratici del Congresso Usa lo avevano ‘avvertito’ con una missiva: “Se Joe Biden diventerà presidente degli Stati Uniti l’Egitto deve cambiare atteggiamento sul fronte del rispetto e delle garanzie per i diritti umani”. Abdel Fattah al-Sisi non si è scomposto, almeno pubblicamente.
Chi osa attaccare i metodi del Cairo merita una ramanzina e, usando lo stesso metro di paragone, chi denuncia violenze e addirittura torture all’interno dei suoi apparati repressivi rischia pesanti ritorsioni. È quanto sta accadendo a Mona Seif, una delle attiviste antiregime più accese, minacciata tutt’altro che velatamente dai vertici del Ministero dell’Interno. Nei giorni scorsi la Seif ha pubblicato un video su Facebook in cui attaccava il massimo organo giudiziario, la Procura generale del Cairo, rea secondo lei di non aver mosso un dito dopo la grave denuncia di suo fratello, Alaa Abdel Fattah, durante l’ultima udienza per il rinnovo della sua detenzione. Ad inizio marzo Alaa, tra i protagonisti della Rivoluzione di Piazza Tahrir nel 2011 e in cella dall’autunno del 2019, ha testimoniato davanti al giudice di aver sentito alcuni prigionieri reclusi in una cella vicina nella sezione Scorpion II del carcere di Tora torturati con l’elettroshock. Stiamo parlando del settore del penitenziario dedicato ai detenuti politici e di coscienza, tra cui figurano personaggi come Mohamed al-Bakr, Ibrahim Metwaly, Mohamed al-Qassas, Abdel Moneim Aboulfotouh e tanti altri giornalisti, avvocati e, in generale, difensori dei diritti umani le cui storie drammatiche sono state raccontate dal Fatto Quotidiano.it.
Il post di Mona Seif ha suscitato forti reazioni in Egitto. Oltre a denunciare un episodio gravissimo, se confermato, la Seif getta ombre sui metodi utilizzati dalle autorità carcerarie della più grande e discussa prigione egiziana. Nel video, inoltre, la sorella di Alaa Abdel Fattah ha riferito di aver presentato una denuncia ufficiale alla Procura stessa per indagare sulle accusa di tortura all’interno della sezione penitenziaria. Non era la prima volta che Mona Seif presentava una querela alla Procura generale del Cairo per episodi di violazioni dei diritti nei confronti del fratello: tutti inascoltati. Una, in particolare, nel novembre del 2019, pochi giorni dopo l’arresto, quando Abdel Fattah raccontò di essere stato bendato, picchiato e umiliato. Stavolta l’accusa è ancora più grave perché si tratterebbe di torture e dell’uso dell’elettroshock.
Il Ministero dell’Interno, in merito alla vicenda, ha diffuso una nota in cui oltre a negare le accuse di Alaa Abdel Fattah sulle presunte torture attraverso folgorazioni a Tora prelude ‘Imminenti misure legali nei confronti della stessa Mona Seif’. Al momento Mona Seif, che ieri ha compiuto 35 anni, è ancora in libertà e non ha ricevuto alcuna comunicazione da parte della procura, ma tra le righe del comunicato ministeriale in molti hanno letto un tutt’altro che velato avvertimento: “Invece di indagare sul possibile uso dello strumento della tortura elettrica all’interno della prigione, il Ministero dell’Interno nega l’accaduto ancor prima di avviare una qualsiasi inchiesta. Ora anche le minacce di ritorsioni nei confronti della sorella di Alaa Abdel Fattah” si legge in una nota pubblicata da un raggruppamento di organizzazioni che si battono per i diritti umani. Tra queste, oltre al centro antitortura el-Nadeem, l’Eipr di Patrick Zaki e l’Ecrf che rappresenta legalmente la famiglia di Giulio Regeni. Sono giorni molto intensi per la famiglia Seif, impegnata da generazioni nell’attivismo antiregime. All’inizio della prossima settimana è attesa la sentenza in giudizio per Sanaa Seif, la sorella minore di Alaa e Mona, arrestata lo scorso anno e da allora rinchiusa nel carcere femminile di Qanater.