L’unico aspetto veramente intrigante nel ritorno sulla scena politica dell’insapore Enrico staisereno Letta è immaginare l’espressione che – alla ferale notizia – stanno assumendo non solo Matteo Renzi, ma anche la combriccola di renziani mimetizzati negli anfratti del corpaccione PD; pronti a trasformarsi in bombe umane al comando del loro immutato capo corrente, asserragliato nel laboratorio di “porcate e colpi bassi” denominato Italia Viva.
Per cui la trovata di riportare in auge quello che fu l’agnello sacrificale abbandonato alla furia vandalica del rignanese (e ora presunto carico di risentimenti alla ricerca di vendetta nei confronti di chi l’aveva sgarrettato), va interpretata come ennesimo esempio dell’antica perfidia democristiana dei Dario Franceschini e Paolo Gentiloni.
Quella DC che è la matrice comune tanto di chi ha allestito la trappola-Letta per l’odiato Giglio Magico, come per il reduce dagli ozi universitari parigini. Resta da appurare quanto l’eterno giovanotto, invecchiato nei meandri di quella che fu la “balena bianca” (in cui si aggira dal 1991, quando a 25 anni divenne presidente del Giovani Democristiani Europei), sia capace di eseguire feroci regolamenti di conti.
Infatti, nella vasta tipologia umana che popolò la cinquantennale egemonia del partito di riferimento del Vaticano (e di Washington), il segretario PD in pectore sembra più simile al modello pretino-pacioso (le gattemorte doroteo-prodiane) che a quello tracotante-battagliero (fanfaniano). Comunque una questione che riguarda solo i diretti interessati e un certo voyeurismo politico-giornalistico.
Resta invece da capire quale impatto può produrre l’arrivo di questo rieccolo, che in un breve lasso di tempo – tra l’aprile 2013 e il febbraio 2014 – guidò in coppia col suo vice Angiolino Alfano uno dei governi più spostati a destra che si ricordino: sponsor Giorgio Napolitano. Il vero tutore della politica politicante, intesa come controllo del popolo bue da parte della corporazione trasversale del potere (vulgo casta). Può essere costui il rifondatore di un partito mero contenitore di voti che cade a pezzi; dove le “molteplici anime”, che si dice ospiti, sono solo le velleità carrieristiche e acquisitive di bande personali dei vari “signori della guerra”?
Perché – stando alla biografia – Enrico Letta non è neppure una cura omeopatica, semmai un placebo da somministrare al malato terminale. Di certo un pervicace cultore della medianità avrebbe problemi a cogliere l’occasione rappresentata dall’idea di un “campo progressista”; propugnato dall’onesto socialdemocratico Pierluigi Bersani e suffragato dalla leadership Cinquestelle del neo-moroteo Giuseppe Conte (e l’Aldo Moro delle aperture a Enrico Berlinguer venne sacrificato dai dorotei sull’altare del CAF: la restaurazione del centrismo sull’asse Craxi-Andreotti-Forlani). Difatti, più che all’attivazione delle dinamiche competitive destra-sinistra, l’idea lettiana parrebbe orientata verso un ecumenismo in tono minore, che imbarchi perfino il nullismo confindustriale di Carlo Calenda.
D’altro canto, quest’ultima increspatura del quadro politico sembra indicare che stiamo vivendo la stagione degli uomini della provvidenza immaginari. Abbiamo avuto il Mario Draghi santo subito; beatificato dal complesso d’inferiorità dei provincialotti che mai hanno varcato il confine a Chiasso o Ventimiglia, convinti che parlare l’inglese (e dai con quel whatever it takes) e indossare grisaglie attesti cosmopolitismo up-to-date. Quando il vissuto dell’algido banchiere lo conferma soldato giapponese sperduto nella giungla dell’ormai anacronistica stagione del privatismo liberista, insieme ai fidi Franco Giavazzi e la banda McKinsey.
Ora arriva l’altro soldato giapponese Enrico Letta, sperso nella giungla del paternalismo conservatore, alla guida di un partito che dovrebbe trovare una buona volta la propria anima. Guardando a sinistra, se non altro per l’affollamento a destra.