Uffici ammazzati dallo smart working? Non proprio. Non dappertutto. Il mercato immobiliare di Milano e Roma risponde alla crisi Covid raddoppiando. Nelle due maggiori città non si assiste a un rallentamento degli investimenti sul real estate destinato a uffici. Nonostante i dati raccolti durante la pandemia da operatori specializzati nel settore parlino di scenari a medio termine in cui il lavoro da remoto in Italia crescerà dall’attuale livello stimato del 5% fino al 30-40% (il doppio della media europea del 17%). E di una riduzione degli spazi fisici in termini di metri quadrati con una forbice fra il 5-30%. Diversa la situazione per la provincia – meno studiata dagli analisti – che rischia di pagare dazio due volte: con i piccoli studi (avvocati, commercialisti, architetti etc) in crisi sui canoni di locazione e le prime grandi multinazionali che spostano le loro sedi nelle grandi città meglio interconnesse a livello fisico e digitale. Un esempio? Novartis a Milano. La multinazionale farmaceutica ha firmato proprio nel pieno della pandemia un contratto di locazione per trasferirsi nel nuovo distretto ED.G.E. – Edifici Garibaldi Executive -, destinato ad uso uffici, spostando da Origgio oltre 700 dipendenti. Una doppia scommessa immobiliare per gli svizzeri: a Garibaldi la sede amministrativa e sull’area Mind, nei terreni ex Expo, dove trasferirà invece ricerca e sviluppo.
“Le sedi centrali non potranno scomparire” dice al fattoquotidiano.it Massimo Roj, architetto e amministratore delegato di Progetto CMR, tra i massimi esperti del settore progettazione uffici a Milano come all’estero (Cina in particolare). Il motivo? “Sono dei simboli prima ancora che degli edifici, sono l’elemento di catalizzazione e inclusione. Mentre sul territorio ci sarà bisogno della connessione visto che l’home working ha mostrato, per ora, tutti i suoi limiti”. Edo perché “non si sta cogliendo un rallentamento degli investimenti, in particolare per quanto riguarda gli investitori internazionali”. Nessuna cancellazione, al massimo una “dilatazione dei tempi”.
I numeri – Secondo il gruppo Coima, la creatura del principale immobiliarista milanese, Manfredi Catella, che gestisce sei miliardi di immobili attraverso oltre venti fondi per milioni di metri quadrati destinati a uffici per oltre l’80% per lo più in locazione, è vero che ci saranno profondi cambiamenti. Il report “Il futuro degli uffici” pubblicato a ottobre 2020 parla di crescita del lavoro da remoto fino al 40% e la riduzione degli spazi del 5-10% “attraverso un’adozione medio-bassa del lavoro remoto” o “di circa il 10-30% attraverso un’adozione elevata del lavoro remoto”. Ma per usare il loro slogan i conduttori preferiranno “la qualità rispetto alla quantità”. Vedremo un mondo spaccato in due sulla base di parametri qualitativi e organizzativi dei nuovi uffici. “La domanda sarà impattata dall’innalzamento degli standard attesi qualitativi in termini di sicurezza, benessere e contenuto tecnologico contrapposti alla qualità dello stock attuale” dice a ilfattoquotidiano.it Luca Villani, head of corporate solution di JLL, società di consulenza immobiliare specializzata. Tradotto: muore chi non cambia su alcuni aspetti a partire da spazi, energia e mobilità. Il futuro? I consulenti dei JLL parlano di approccio “headquarter e uffici satellite” o “Hubs&Clubs”. Cos’è? Sedi centrali delle aziende (o perché no, del pubblico) di rappresentanza dove ci si reca una o due volte a settimana e poi una serie di mini-hub a destinazioni varie lungo le direttrici dei pendolari per lavoro, anche all’interno della stessa metropoli o hinterland. Ci sta lavorando proprio l’architetto Massimo Roj per conto di un cliente.
I nuovi mini hub (anche nell’hinterland) – Li definisce “centri di lavoro esterno che stiamo immaginando non codificati per solo alcune tipologie di lavoro ma per avere potenzialità più ampie e versatili, con magari all’interno degli aggregatori sviluppati in verticale tendenti a una maggiore specializzazione produttiva o mansione come possono essere quelle artigianali o le alte competenze digitali e tecnologiche”. È lì che va il futuro delle città secondo Roj. “Credo che il co-working possa diventare il punto di aggregazione delle persone che lavorano nei quartieri, riattivando il nostro patrimonio, con le città fatte di piccole aree autosufficienti dove si trovano tutte le funzioni: dalla residenza, ai servizi, all’artigianato, agli uffici, agli spazi verdi, la scuola, le aree sportive”. Necessario per fare ciò l’investimento pubblico sul trasporto per far sì che “le persone possano muoversi facilmente fra questi distretti grazie al sistema di trasporto pubblico o condiviso per andare una o due volte a settimana nella sede principale”.
Vantaggi ecologici e di prevenzione – Ci sono già aziende che si “vendono” questa modalità di rapporto anche in termini di mancata emissione di CO2 e chissà che questo non paghi anche in termini di incentivi alla transizione energetica o sgravi fiscali. Lo hanno fatto per esempio, sotto pandemia, le imprese che per i colloqui di lavoro si sono affidate alle risorse umane da remoto. Ma ancora di più quelle che hanno sperimentato per la prima volta in Italia i colloqui gestiti da intelligenze artificiali, ricordando al candidato quanto stia facendo del bene all’ambiente proponendosi per un lavoro senza usare l’auto per recarsi all’appuntamento. “È un fatto – dice Roj – che anche nel contesto attuale qualunque costo di sanificazione o distanziamento protettivo è inferiore ai costi sociali di milioni di persone che si spostano, perché nelle città globali il pendolare medio realizza spostamenti di 40 minuti ciascuno. Paghiamo tutto questo in termini di stress, inquinamento, viaggi e tempo, prezzi e tariffe. La soluzione c’è ma non è lo smart working della pandemia”.
La bolla alimentata dalle maxi iniezioni di liquidità – Lì guardano i grandi investitori nelle metropoli. Per almeno tre ragioni. Oltre agli aspetti “etici” che si evolvono anche in forme di “storytelling”, la realtà è che i cosiddetti investimenti Esg (Environmental, social governance) sono la nuova leva finanziaria su cui scommettono i capitali di tutto il mondo a caccia di rendimenti, in un globo in cui questi sono sempre più rari se non su produzioni o settori ad altissimo valore aggiunto come farmaceutica o life science. E proprio, come avviene per il settore residenziale, anche per gli uffici le politiche monetarie della banche centrali che accompagnano l’Occidente dal 2012 (“whatever it takes”) iniettando liquidità e abbassando i tassi di interesse hanno l’involontario effetto di alimentare nelle grandi aree metropolitane attrattive una vera e propria corsa rialzista del settore real estate. Corsa che alcuni, fra gli addetti ai lavori, non hanno esitato a paragonare a una bolla.
Nell’anno del Covid a Milano tanti maxi investimenti – Che il segmento del mercato uffici non stia davvero crollando come il senso comune vorrebbe – al contrario di altri come centri commerciali e Ho.Re.Ca. (Hotel, Restaurant, Cafè) – lo dimostrano gli investimenti fatti proprio nell’anno del Covid. Uno dei più grandi cantieri d’Europa, quello di MilanoSesto, dove oltre alla “Città della Salute” sorgerà un distretto multifunzionale, ha visto il colosso immobiliare Usa Hines riuscire a intercettare mezzo miliardo di euro di investimenti grazie a Cale Street, la società dell’ex Goldman Sachs Edward Siskind che ha deciso di scommettere su Milano i soldi del Fondo sovrano del Kuwait. Covivio – il gruppo immobiliare italo-francese partecipato da Leonardo Del Vecchio – ha lanciato in autunno il suo co-working di ultima generazione “Wellio”. Lo stesso ha fatto WeWork, la startup miliardaria finanziata per anni dal gigante degli investimenti SoftGroup che voleva rivoluzionare il mondo del lavoro con uffici in coworking di lusso, aprendo poche settimane fa in via Mazzini (un altro in arrivo in via Meravigli). Lo ha fatto dopo aver visto la propria capitalizzazione figlia di una bolla finanziaria sul titolo crollare in borsa come tanti soggetti operanti in quel settore. C’è una questione di qualità, cioè cosa si costruisce e per quale funzione, ma anche di timing dell’investimento immobiliare. Nonostante alcuni cali generalizzati nel 2020, con contrazione totale del “settore office” del 33% per quelle che in gergo tecnico si chiamano operazioni core e value add opportunistiche, “la durata d’investimento di lungo periodo consente di minimizzare il rischio legato a variazioni contingenti e di medio termine nell’uso e domanda di spazi” spiega al fattoquotidiano.it Luca Vaj, Head of Office capital market anche lui della società di consulenza JLL.
L’ufficio non è morto – Morale? Torneremo in ufficio. Ne è sicuro Massimo Roj. Perché i limiti dell’home working sono pesanti e vanno dall’assenza, per ora, di connessioni infrastrutturali e telematiche valide fino a quella di “postazioni conformi alla norma” che sono state sostituite “sotto lockdown dalla panca di una cucina con i fili che scivolano lungo le gambe o la schiena”. Ma soprattutto per l’architetto il vero limite è stato “non avere mai un orario di lavoro effettivo”. Lavorando da casa “non c’è più limite all’attività e manca la quotidianità spaziale, quella per cui ci si sposta in un determinato luogo per scandire il tempo dedicato al lavoro e quello da dedicare a se stessi”.