L’impresa sulla carta è titanica: (ri)prendersi il Partito democratico, sopravvivere alle correnti interne e cercare di rilanciare un progetto politico che rischia di affossarsi definitivamente. Il Pd, tra le vittime della manovra di palazzo dell’ex pupillo Matteo Renzi, paga il debito con il tradito per antonomasia Enrico Letta e gli affida la segreteria del partito. Archiviati i convenevoli, ora si apre la partita più complessa. Il momento storico per l’ex presidente del Consiglio è propizio: è stato lui il primo a sinistra ad aver fatto un governo politico con Silvio Berlusconi (era il 2013) e non può che trovarsi a suo agio in un’esecutivo Draghi nato in nome dell’europeismo. Ma questa è solo una parte del racconto: perché non ne parla più nessuno (o quasi), ma il nodo cruciale sarà definire e strutturare il rapporto con il Movimento 5 stelle. L’ex segretario Nicola Zingaretti ha indicato la strada: “Il Pd sia autonomo in alleanze competitive”. Ovvero, ripartire e non archiviare l’esperienza del governo giallorosso. C’è già chi evoca un ritorno dell’Ulivo, ma il modello regge solo in parte: perché il progetto funzioni, servirà unione sì, ma anche forze radicalmente diverse e capaci di interpretare tempi nuovi.
Decisivo sarà quindi il rapporto di Enrico Letta con Giuseppe Conte e il Movimento 5.0, quel M5s rifondato da Beppe Grillo in nome della transizione ecologica. Ma il Pd è d’accordo? Ci sta? Fa sul serio? La coalizione, al momento, è l’unica strada per sperare di avere un futuro elettorale, ma sono tante le spinte di chi chiede di ripartire prima di tutto dalla propria identità. Il discorso non potrà che andare di pari passo: perché chi o cosa il Partito democratico deciderà di diventare, influenzerà la possibilità che i 5 stelle siano della partita. Letta è stato il primo a scontrarsi in Parlamento con l’opposizione M5s, ma era un’altra epoca politica e negli ultimi mesi, dal suo osservatorio neutrale dall’estero, ha più volte mandato apprezzamenti a Conte. E lo ha fatto prima e con più entusiasmo di tanti suoi colleghi di partito. Da quella stima dovrà ripartire per aprire un dialogo e decidere i contorni del progetto. Intanto un primo successo l’ha già avuto: fare pulizia dei renziani. Si racconta di un ex candidato in pectore alla segreteria Stefano Bonaccini su tutte le furie e l’umore non dev’essere dei migliori per il senatore di Rignano: dopo tutta la fatica per far saltare il Conte 2, si trova di colpo i suoi due nemici giurati alla guida della rigenerazione dei due partiti di cui voleva l’implosione. Basta per unire gli intenti? No, ma almeno è un inizio.
Il passato – L’ultimo libro di Letta è del 2019 e si intitola Ho imparato. In quel testo, dedicato ai suoi studenti, l’ex premier scrive che il tradimento di Renzi è stata quasi una benedizione, una vera “lezione di vita”. Non gli crediamo: o meglio, di essere pugnalato senza che il partito battesse ciglio, ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma sicuramente l’esilio ha fatto molto bene alla sua carriera. E ora può tornare in Italia da “nuovo”, ripulito dai rancori e dalle dinamiche stantie dei vecchi giochi politici. Lui che presidente del Consiglio è stato per poco meno di un anno, all’estero ha trovato un’ulteriore legittimazione. In Francia è arrivato nel 2015, dopo essersi dimesso da parlamentare e mai scelta fu strategicamente più azzeccata: l’ex premier è diventato direttore della scuola di Affari internazionali della prestigiosa Sciences Po. Lui che aveva iniziato come capo segreteria alla Farnesina nel 1996 del suo mentore Beniamino Andreatta e che nel 1998 Massimo D’Alema volle come ministro più giovane di sempre alle Politiche comunitarie. Quando Letta è arrivato alla corte dei rampanti studenti parigini, era un ex premier affossato dal suo stesso partito in cerca di una nuova vita. Le slide di quei giorni sono un pezzo di storia politica del nostro Paese: la direzione Pd che si riunisce per sfiduciarlo, le dimissioni, il passaggio della campanella nel clima funereo della peggiore delle manovre di palazzo.
Tutto questo, l’esilio parigino ha permesso di lasciare alle spalle, dando al tempo la possibilità di sanare le ferite. Così mentre i colleghi in Italia si avvitavano su beghe interne di partito, incassando sconfitte elettorali e ingoiando compromessi, lui da lontano inizia a giocare la partita da padre nobile ritrovato. Lui che per anni era stato additato come il politico grigio incapace di scaldare gli animi e raccogliere abbastanza voti, diventa addirittura la star del salotto di Twitter, il luogo del delitto dove nel 2014 venne pugnalato da Renzi con l’hashtag #enricostaisereno. Si ricava uno spazio tutto suo e, libero dalle pressioni, rilancia tutte quelle battaglie che dovrebbe fare la sinistra: la difesa dell’Europa come la liberazione di Patrick Zaki. Fa una cosa, in questo molto simile a Conte: nel momento di più grande delusione, si ritira e sceglie un altro percorso. E nel suo farsi parte, acquista credibilità.
Paradossalmente la lontananza e il tradimento subito, hanno permesso a Letta di riscattarsi anche agli occhi dei 5 stelle. Con i quali i rapporti erano sempre stati tutt’altro che idilliaci. Letta infatti, è nipote di quel Gianni braccio destro di Silvio Berlusconi e nell’anno dello tsunami di Beppe Grillo, lui impersonava le larghe intese e tutto il peggio che ne potesse derivare. Letta è il fondatore di VeDrò, think tank estivo sul Lago di Garda, che quando ancora non andava di moda, riuniva allo stesso tavolo i volti più promettenti dei vari partiti da destra a sinistra. In quella cornice sono passati tanti di quelli che si sono visti dopo (da Lorenzin alla coppia Boccia-De Girolamo alla De Micheli), perfino Renzi quando era solo sindaco di Firenze. Del resto Letta è stato il primo della sinistra a fare un governo politico con l’ex Cavaliere e per il M5s quello era un peccato inaccettabile. In quell’anno di governo, l’opposizione dei 5 stelle non si è risparmiata, con Beppe Grillo ancora in prima fila. “Basta incitare alla violenza e fare maceria della democrazia rappresentativa”, lo sfidò l’ex premier in Aula a dicembre 2013. Il garante rispose su Facebook: “Mente e ci offende”. Erano “solo” otto anni fa, nel frattempo è cambiato il mondo.
Il presente – Nel presente di Enrico Letta, o meglio il passato recente, non cambiano solo gli altri, ma cambia anche lui. Mentre infatti in Italia si susseguono i governi e le stagioni elettorali, lui si concentra sull’insegnamento. E non solo nella cornice dorata di Sciences po. Sulla scia delle vecchie esperienze, crea la Scuola di Politiche che ogni anno, dal 2015, prepara 100 “talenti” tra i 18-26 anni. E che culmina in una Summer school estiva con ministri, leader e politici di ogni tipo. Un’iniziativa tutt’altro che di nicchia e che permette a Letta di coltivare quella che è sempre stata una delle sue armi: la rete. Nel frattempo, mantiene un piede nei dem, diventando uno dei primi sostenitori di Zingaretti. A marzo 2019, mentre il Pd affrontava le primarie, riprende la tessera dopo cinque anni di pausa. E’ l’inizio del disgelo. Così mentre i suoi colleghi entrano nell’esperienza giallorossa, lui da lontano lancia segnali di sostegno.
“Non ci sono alternative a un’alleanza permanente con i 5 stelle”, scandisce a maggio scorso su Radio Capital. Quattro mesi dopo si schiera per il taglio dei parlamentari: “Voterò sì convintamente”, dice e nel Movimento non passa inosservato. Senza dimenticare le varie aperture sul reddito di cittadinanza: “E’ importante avere interventi per dare una base di dignità a tutti i cittadini”, dice a gennaio 2019. “Spero che venga migliorato, ma in una democrazia moderna è bene che ci siano misure così”. Concetto poi ribadito al Fatto quotidiano neanche un mese dopo: “E’ un primo passo per affrontare un grave problema di marginalità”. E se il Pd lo ha rinnegato all’inizio è perché “era senza guida e comandava ancora Matteo Renzi“. Ma al di là dei temi, Letta è anche tra i più strenui difensori del governo giallorosso e in particolare di Giuseppe Conte. Nelle sue ultime e mirate interviste sui quotidiani italiani, si schiera con l’esecutivo e il presidente del Consiglio: “Tutti buoni a criticare ora, ma ha lavorato in una condizione difficilissima e da far tremare i polsi”, dice a luglio. Mentre a dicembre rilancia: “Il governo giallorosso era l’unico possibile e per questo occorre continuare a rafforzarlo nell’interesse del Paese”. E mentre Renzi sferra il colpo di grazia, l’ex premier al Corriere dichiara che Conte “ha fatto molto bene a sfidare Renzi“. Una delle ultime frasi che, lette oggi, suonano premonitrici è del 4 febbraio: Conte fa l’ultimo discorso davanti a Palazzo Chigi e dà la disponibilità a continuare il suo impegno con M5s e Pd, Letta su Twitter scrive: “I miei complimenti a Conte per le parole chiare e dignitose di oggi”. Più che un attestato di stima, uno schieramento di campo.
Il futuro – Quello però era prima, ora inizia la fase più difficile: disegnare e inventarsi il dopo. Il rapporto tra Conte e Letta non parte da zero. E questo, se non altro nella predisposizione reciproca al dialogo, non sarà indifferente nelle tappe dei prossimi mesi. Il Pd in crisi nera nei sondaggi (e non solo), complice molto probabilmente la situazione di stallo dopo le dimissioni di Zingaretti, dovrà fare i conti con il balzo in avanti del Movimento sotto la guida dell’ex premier. Su molti punti i due leader possono intendersi: la carriera universitaria, la formazione cattolica, lo stile moderato nei modi e nei toni. E non da ultimo, la ritrovata centralità dell’Europa, senza escludere interventi di riforma per avvicinarla sempre di più ai cittadini (lo dice da sempre Letta, lo ha detto Conte nel suo discorso all’università di Firenze). E’ una fase cruciale, ma anche prematura. Entrambi prendono in mano due partiti in piena “rigenerazione”, ma a condizioni diverse: il primo gode del massimo della popolarità e dovrà cercare di capitalizzarla, il secondo arriva sull’orlo del burrone e dovrà dare la sterzata giusta per evitare che frani tutto. Entrambi sanno però, che il tema del dialogo tra Pd e M5s dovrà essere al centro di ogni nuovo progetto: l’intergruppo nato in Senato alla vigilia della fiducia a Draghi è stato un assaggio (senza troppo entusiasmo), ma su quella base dovrà innestarsi il lavoro.
Prima di sedersi al tavolo e trattare gli equilibri di una coalizione, ogni forza dovrà aver ben chiaro chi è e chi rappresenta. Il problema per Letta sarà capire dove intende portare il suo partito. Perché se la strada è quella del dialogo con altre forze, probabilmente questo comprenderà gli ex amici alla sua sinistra (il primo Pierluigi Bersani, poi Elly Schlein e Vasco Errani) e dall’altra parte, Azione di Carlo Calenda o +Europa di Emma Bonino. E allora però, il Pd di Enrico Letta dovrà scegliere se guardare più a sinistra o tenere un dialogo aperto anche con le forze neoliberali. E quanta importanza dare alle politiche sociali, quel pilastro che ha più volte invocato per l’Ue, e che in tutto e per tutto può creare un ponte con i 5 stelle. Una scelta identitaria che influenzerà anche il modo in cui decideranno di stare dentro al governo Draghi: se subiranno le scelte in nome della responsabilità nazionale o se decideranno di incidere senza accettare tutto a qualsiasi costo.
L’altro tema cruciale sarà l’ambiente. Roberto Cingolani alla guida del ministero della Transizione ecologica chiesto dai 5 stelle, tra le prime apparizioni vanta quella sul palco di VeDrò, quindi già osservato speciale di Enrico Letta. E questo non può che avvicinare il neosegretario al mondo 5 stelle. La domanda è sempre la stessa: quando il Partito democratico si deciderà a puntare sull’ecologia e l’ambiente? O si farà mangiare quel campo dal Movimento 5 stelle? Pochi giorni fa il sindaco di Milano Beppe Sala ha annunciato l’adesione ai Verdi Europei, lanciando un segnale che a sinistra dovrebbe allarmare: il Pd si è fatto sottrarre, finora, tutte le battaglie ambientaliste e chi vuole sfruttare la bandiera ecologista deve cercare altre case. Ecco, se i democratici vogliono sopravvivere alla più difficile delle crisi, la transizione ecologica sarà uno degli appigli fondamentali ai quali aggrapparsi: un punto su cui dialogare con il Movimento e su cui rilanciare la propria immagine. Infine resta un altro nodo e per niente secondario: la partecipazione femminile. La rivolta interna, dopo che la gestione Zingaretti non ha portato al governo neanche una ministra donna, è stata trattata con sufficienza da troppi e rischia di avere effetti soprattutto sulla credibilità del partito. Letta, abituato al clima europeo (che sul tema è avanti anni luce rispetto all’Italia), sa bene che se il Pd vuole rinnovarsi deve garantire una rappresentanza plurale e che agli annunci seguano fatti concreti.
L’impresa è impossibile? Forse. Certo, messa giù così sembra quantomeno un’utopia e probabilmente solo un ex leader con un attaccamento emotivo (o un conto in sospeso) poteva sobbarcarsi il viaggio. Il segretario Letta come prima cosa ha chiesto “la verità nei rapporti”. Che detto alla platea che ti ha cacciato e ha poi ottenuto la testa di Zingaretti con i stessi modi oscuri, suona un po’ illusorio. Ma una cosa è chiara a tutti: o così o niente, per la vita del Partito democratico è l’ultima chance.