I “patrioti” avranno per sempre la maggioranza nel consiglio legislativo, il parlamentino di Hong Kong. Laddove per “patrioti” si intende chi è fedele alla Cina e non ha velleità secessioniste o autonomiste. È questo il succo della riforma elettorale decisa alla fine del Lianghui, la doppia sessione annuale dei parlamenti cinesi durante la quale è stato deciso il 14° Piano quinquennale (2021-2025) . Il parlamentino di Hong Kong dovrà approvare la riforma, ma c’è da giurare che lo farà, specialmente dopo che i membri dell’opposizione sono stati espulsi e, in alcuni casi, messi sotto processo.
Andiamo nel dettaglio: la riforma elettorale aumenta il numero dei membri del consiglio legislativo da 70 a 90. Quelli in più saranno scelti dalla commissione elettorale, un organismo già controllato dalla Cina a cui saranno aggiunti nuovi membri provenienti direttamente da Pechino. Si diluisce così il peso dell’opposizione, che potrà essere per altro formata solo da figure compatibili, visto che la riforma introduce anche un comitato che valuterà il “patriottismo” di ogni candidato prima delle elezioni. I media cinesi celebrano la riforma come “sistema elettorale democratico con caratteristiche hongkonghesi” e i politici filo-Pechino celebrano la “legalità” della riforma, che garantirebbe la democrazia al tempo stesso la sicurezza di Hong Kong, dove appare chiaro che la seconda assume priorità rispetto alla prima. Giappone, Regno Unito e Usa hanno già espresso condanna e riprovazione, ma potranno fare poco. Il disegno di Pechino è chiaro: mantenere lo status della città come centro finanziario d’Oriente e al contempo assimilarla sempre più politicamente alla Cina continentale, rendendo impossibili movimenti di protesta come quelli degli ultimi anni.
Piano quinquennale – Dopo la doverosa menzione del “finale con il botto”, va tuttavia precisato che non è sicuramente questo l’esito più importante del Lianghui, bensì il varo del 14esimo piano quinquennale, che ci porterà al 2025 e disegna la Cina del futuro anche più remoto. È una Cina che intende promuovere la “prosperità comune” (gongtong fuyu), un concetto in uso da tempo ma particolarmente enfatizzato di recente dal Partito e da Xi Jinping. Insieme a innovazione, ambiente, questione rurale, è una delle quattro voci fondamentali del piano quinquennale, ma come si può osservare le altre tre sono tutte in qualche modo connesse alla “prosperità comune”.
Prosperità comune è l’elemento “comunista” che Xi Jinping sta riportando in auge, dopo il neoliberista “qualcuno si arricchirà prima di altri” lanciato da Deng Xiaoping 40 anni fa. Insomma, Xi sta dicendo da tempo che in Cina c’è troppa diseguaglianza e che bisogna crescere tutti insieme. In particolare, il presidente cinese ha posto nei suoi recenti discorsi l’accento su disparità regionali, disparità urbano-rurali, disparità di reddito.
Per comprendere il contesto va ripreso il concetto di “doppia circolazione” (shuang xunhuan), nuova dottrina economica più volte citata negli ultimi mesi. Nella “doppia circolazione”, il mercato domestico e quello internazionale si integrano e si potenziano, con il primo che diventa “cardine”, così come riferisce uno speciale della Tv di stato cinese. È la ratifica di un processo ormai in corso da anni, che trova nuovo impulso oggi, nel quadro delle accresciute tensioni internazionali con gli Usa e della crisi globale post-Covid.
La Cina vuole restare un attore della globalizzazione – forse il principale – ma ha ben compreso con la recessione del 2008 che la sua economia export-oriented era troppo vincolata ai chiari di luna delle economie straniere. Inoltre, da anni è venuto meno quel vantaggio competitivo basato sulla rendita demografica, cioè su un esercito industriale di riserva, che consentiva di produrre a basso costo e invadere i mercati con le proprie merci. La Cina invecchia e la manodopera disponibile si riduce, inoltre la sua economia si trova ormai di fronte alla “trappola del reddito medio”, per cui all’aumento dei salari corrisponde una perdita di competitività.
Da quel 2008, pur non disdegnando la vecchia ricetta delle esportazioni, Pechino ha puntato sempre più su un mercato domestico unico al mondo per dimensioni e potenzialità espansive: se un miliardo e quattrocento milioni di cinesi diventeranno benestanti – è questa la xiaokang shehui (società del benessere moderato) auspicata da Xi Jinping – compreranno infinitamente di più, preferibilmente cinese. Per cui la Cina deve sempre più puntare ad arricchire la propria popolazione, con lavori all’altezza e un welfare realizzato, producendo al contempo merci e beni ad alto valore aggiunto. Lo deve fare sia per competere sui mercati internazionali al livello più elevato, sia per soddisfare il proprio crescente ceto medio. Certo, dato che sulla scala dell’arricchimento di un paese immenso ci saranno ancora a lungo lavoratori non specializzati, la Cina-fabbrica del mondo di prodotti cheap non andrà ancora in soffitta, anche perché c’è il grande mercato del Sud globale disposto ad accogliere quelle merci. Per fare un esempio, la città di Yiwu fornisce il 70 per cento degli addobbi natalizi che circolano sul pianeta e una percentuale analoga di fiori di plastica.
Nuovo paradigma – Tuttavia, il paradigma è cambiato: il futuro delineato dal piano quinquennale si basa su innovazione, rispetto dell’ambiente e quindi, nelle intenzioni, maggiore ricchezza per tutti. Cioè la Cina vuole rendere la sua economia più tecnologica, sia a causa delle sanzioni statunitensi sulle tecnologie di base come i microchip e i semiconduttori – bisogna fare da soli e in fretta prima che capiti un altro Trump a interrompere la supply-chain globale – sia per risolvere i propri problemi ambientali – si punta per esempio tantissimo sulle auto elettriche – e offrire lavori più qualitativi e redditizi alle nuove generazioni. Non dimentichiamo che ogni anno in Cina si affacciano sul mercato 14 milioni di nuovi giovani lavoratori e durante il Lianghui il premier Li Keqiang ha promesso per il 2021 11 milioni di posti di lavoro “urbani” (cioè nella cultura sviluppista della leadership cinese, “moderni”).
Ormai da tempo la parola d’ordine della “indipendenza tecnologica” è una priorità. Nel piano quinquennale Pechino mostra concretamente cosa si intende per promuoverla, e come al solito ci troviamo di fronte a un mix di investimenti, di incentivi e di obiettivi da raggiungere. Il progetto stabilisce tre indicatori principali. Dal 2021 al 2025, la spesa per la ricerca e lo sviluppo (R&S) della Cina aumenterà di oltre il 7 per cento all’anno (la crescita del Pil è stata stabilita al 6 per cento, quindi l’investimento in R&S sarà maggiore). L’obiettivo per i brevetti “di alto valore” dovrà aumentare dai 6,3 per 10mila abitanti del 2020 ai 12 del 2025, quindi raddoppiare. Il valore aggiunto dell’industria legata all’economia digitale in proporzione al PIL dovrà aumentare dal 7,8 per cento del 2020 al 10 del 2025. La detrazione fiscale per i costi di ricerca e sviluppo delle imprese manifatturiere sarà aumentata al 100 per cento nel 2021. Si insiste molto sul termine “sviluppo guidato dall’innovazione” e gli investimenti nella ricerca di base saranno aumentati dell’8 per cento. Quanto ai settori privilegiati, la Cina prevede di istituire una serie di laboratori nazionali in campi come la fisica quantistica, la fotonica, le micro-nano tecnologie, l’intelligenza artificiale, e le fonti energetiche innovative. Pechino si propone anche di focalizzare parecchie risorse nella prevenzione e nel controllo delle malattie infettive, nella medicina e nelle attrezzature mediche.
In questo “sviluppo guidato dall’innovazione” c’è anche un aspetto di relazioni internazionali, che non è però una novità: la Cina favorirà l’ingresso sul proprio territorio delle imprese straniere ad alta componente tecnologica e saranno concessi visti più facilmente agli stranieri considerati in grado di apportare un contributo d questo punto di vista.
L’esempio delle campagne – Tuttavia, sono le politiche rurali la vera cartina tornasole dell’intera “doppia circolazione”. È stata di recente celebrata con grandi squilli di tromba la fine della povertà estrema rurale (tutti i cinesi ormai vivrebbero con più di 1,90 dollari al giorno, lo standard stabilito dalla Banca Mondiale, anche se in Cina il parametro è meno univoco). In Cina, il reddito annuale netto pro capite è di 14.617 yuan (1881 euro) nelle famiglie rurali e di 39.251 yuan (5071 euro) nelle famiglie urbane, mentre la spesa per consumo pro capite dei residenti rurali è di 13.713 yuan (1770 euro), quella dei residenti urbani circa il doppio. Per vincere la scommessa della “doppia circolazione”, bisogna fare anche della popolazione rurale un esercito di consumatori ed è stato quindi deciso di inserire nel nuovo piano quinquennale il progetto di “rivitalizzazione rurale” (Xiangcun zhenxing zhanlue).
Fa parte di una strategia di lunghissimo periodo, perché ci si propone entro il 2035 di compiere progressi “decisivi”, con la modernizzazione di base dell’agricoltura e delle zone rurali (“tutti i cinesi, sia nelle città sia nelle aree rurali, avranno pari accesso ai servizi pubblici di base. Sarà migliorata l’integrazione urbana e rurale”); entro il 2050, di avere “un’agricoltura robusta, splendidi paesaggi e agricoltori prosperi” in tutte le aree rurali (Xinhua).
Nel medio periodo del piano quinquennale che arriva al 2025, lo scopo è di sviluppare le imprese rurali già esistenti, creare nuove attività economiche e incoraggiare l’imprenditorialità e l’innovazione nelle aree rurali.
Ancora più in dettaglio, da documenti recenti, emerge che si vuole: “migliorare le forniture di grano e altri importanti prodotti agricoli, concentrandosi sull’industria delle sementi e sui terreni coltivabili” (sicurezza alimentare); “migliorare le industrie rurali, come l’industria di trasformazione dei prodotti agricoli, per creare più posti di lavoro nelle regioni rurali” (innovazione e tecnologia); “migliorare l’approvvigionamento idrico, la logistica, la rete elettrica e i trasporti (infrastrutture); “potenziare l’istruzione pubblica, gli ospedali e i servizi culturali nelle campagne” (servizi e welfare); “rafforzare la governance rurale” (creare le istituzioni adatte per gli altri compiti). Queste politiche non sono nuove ed è dal 2006 che la Cina ha lanciato la politica “Costruire una nuova campagna socialista” che ha dato esiti controversi.
Oggi si punta al completamento. Perché nelle aree rurali vivono ancora 550 milioni di cinesi, la risorsa più grande per la Cina della “doppia circolazione”.