DUE VITE - 2/3
“Perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene”. Emanuele Trevi non vuol far scappare via e depositare nel “Nulla” le tracce dei defunti scrittori, e amici vicinissimi, prossimi, Pia Pera e Rocco Carbone. In Due vite (Neri Pozza) è come se per desiderio inconscio impellente e per sfida letteraria, tentasse un’arrampicata scoscesa tra le vette raggiungibili ma da evitare dell’emozionalità personale e quelle più irte e aguzze del filosofeggiare sull’assenza. Il più cupo, fragile, bipolare Carbone, autore di una manciata di folgoranti romanzi tra fine novanta e inizio duemila, inseguito da quelle “furie” che lo ossessionavano senza tregua. Pera, “signorina inglese” che traduceva dal russo Pushkin e Cechov, avventuratasi in una Lolita in soggettiva respinta con sdegno dall’erede di Nabokov, e infine protagonista di successo di un giardinaggio in prima persona come forma di letteratura. Trevi scansa la confidenzialità del chiacchiericcio didascalico per cercare una dimensione del discorso dura e distaccante. La forma sembra aggrapparsi più al filo della critica letteraria che alla svenevole descrittività del dettaglio fraterno. Sovrabbondano i sofismi rispetto al dato reale, vagolano qua e là sprazzi di periodi incantevoli e surreali (“come se un corpo fosse capace di sudare cristalli o coriandoli”, p.75; il “dizionario del volto” dei personaggi da descrivere, p.87), e anche se in controluce s’intravede la grazia letteraria, umana, esistenziale degli amici perduti, troneggia un io autocensorio, angosciato, trattenuto che schiaccia e filtra le vite degli altri diventando (suo malgrado?) protagonista assoluto. Voto (junghianamente): 6.