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Pallavolista incinta licenziata: finché l’Italia vede la maternità come un danno, resterà in panchina

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In campo con il pancione. È accaduto domenica, prima della finale di Coppa Italia A2 femminile tra Mondovì e Macerata, che le capitane delle due squadre si siano presentate in campo con un pallone sotto la maglia in solidarietà alla pallavolista Lara Lugli, citata per danni dalla sua società dopo essere rimasta incinta. Il gesto di mettersi il pallone sotto la pancia è stato poi replicato in molti altri palazzetti dello sport, non solo per i campionati femminili ma anche per quelli maschili, mentre sui social è partita la campagna degli uomini con l’hashtag #incinto per prendere posizione contro questa discriminazione.

La vicenda della pallavolista licenziata perché incinta ci racconta tante cose: in primo luogo dell’assenza di veri contratti per le donne sportive italiane che tutelino la loro professione e anche la maternità (in alcuni di questi sono addirittura presenti clausole anti maternità), ma soprattutto è una storia emblematica rispetto a quello che accade nel nostro Paese quando il tema della maternità si accosta a quello del lavoro. Un lavoro che manca (per ben 99mila donne su 101mila persone che hanno perso il lavoro durante gli ultimi mesi di pandemia, secondo gli ultimi dati Istat) e che ha una connotazione così marcatamente di genere da aver reso necessario coniare il termine She-cession, ovvero la recessione al femminile.

Se la crisi occupazionale da Covid è dunque femmina e colpisce più le donne degli uomini, è cosa certa che la pandemia ha solo amplificato e reso evidente un sistema in cui alle donne viene richiesto sempre “di fare un passo indietro”, laddove bisogna scegliere tra la carriera e la cura della famiglia, tra andare a lavoro o restare a casa con in figli in Dad e le scuole chiuse. Il lavoro delle donne, siano esse sportive o meno, è dunque un tema che deve essere affrontato in un’ottica di genere che tenga conto dei pregiudizi, del retaggio culturale che ci condiziona, delle discriminazioni che le donne subiscono.

Ancora una volta il linguaggio ci viene in aiuto: si è parlato tanto di “crisi di genere”, di “segregazione occupazionale” e, nel mezzo della prima ondata, l’Ocse ha utilizzato l’espressione “donne su tutti i fronti” per sottolineare quanto la pandemia e il lockdown abbiano pesato soprattutto sul genere femminile.

È per questo necessario un cambio di paradigma oltre che un vero piano occupazionale che ridisegni le priorità, le esigenze, i bisogni e che non ci colga impreparati di fronte a una terza ondata, che con la chiusura delle scuole sta già mostrando i suoi effetti. Altrimenti sul campo e fuori dal campo la storia rischia di ripetersi: fino a quando questo paese continuerà a guardare alla maternità come a un danno, resterà fermo in panchina.

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