Vorrei ragionare su una notizia, che nel menabò di un giornale, di norma, cadrebbe tra quelle dell’attualità definite ‘divertenti’, ma che non ho visto ripresa dai media italiani, mentre grande risalto sui social ha avuto grazie al rilancio dell’agenzia Reuters.

Sto parlando della decisione estrema assunta da Alexandr Kudlay, 33 anni, e Viktoria Pustovitova di 28 anni, entrambi di nazionalità ucraina, che si sono auto presentati al mondo via social come ‘coppia amorevole’. I due si sono incatenati l’uno all’altra, il giorno di San Valentino. Sembra che il periodo di incatenamento consensuale fosse di circa un mese, quindi i due potrebbero essere tornati in possesso del loro spazio vitale e delle loro braccia, ma non lo sappiamo con certezza.

Le informazioni certe sono che, per l’esattezza, la proposta è partita da lui, e che a tutta prima lei si sarebbe opposta. I litigi, sembra, erano sempre più frequenti, così come le rotture e i ritorni di fiamma. Un tira e molla che stava velocemente minando il rapporto. E invece di andare in terapia o, semplicemente, di accettare il fatto che non erano adatti a stare insieme, ad Alexandr balena una ‘soluzione’: quella di applicare ad uno dei polsi, reciprocamente, un paio di manette che li leghino, in modo da non poter fuggire nel caso di dissapori. “Voglio legarti a me”, sembra che il giovane venditore di automobili abbia detto alla fidanzata estetista. Magari le sarà sembrato un proclama romantico ma, certo, un tantino letterale. Sicuramente in casa nessuno dei due aveva una versione di Elogio della fuga di Henri Laborit, che magari sarebbe stato utile.

“Le liti tra di noi non sono scomparse – ha raccontato candidamente e pragmaticamente Viktoria all’agenzia Reuters dopo qualche settimana di incatenamento – ma quando ci avviciniamo a un punto di non ritorno, smettiamo semplicemente di parlare invece di impacchettare le nostre cose e andare via. Dopo un paio d’ore la rabbia svanisce”.

Mi sembra evidente che sorga spontanea (e un po’ disorientata) la domanda: ma perché? Magari è soltanto una trovata per farsi notare e diventare influencer più velocemente rispetto alla penosa trafila che prevede lo sfornamento di migliaia di post Instagram: per questo ci vuole costanza, e anche un po’ di creatività. Ci si augura solo non stiano pensando ad una carriera di consulenza di coppia, ma mai dire mai.

Alla lettura della notizia e alla vista delle immagini surreali e un po’ tristi dei due ammanettati mi è continuata a girare in testa l’immagine di Marina Abramovich e Ulai, suo compagno di vita e progetti artistici per lungo tempo, che per mostrare la nudità e la crudezza, (letteralmente) dell’impegno di coppia nei suoi aspetti più oscuri decisero di mettere in scena due performances leggendarie, di quelle che segnano per sempre la storia dell’arte e non solo. Si tratta di Imponderabilia, azione realizzata dai due il 2 giugno 1977 alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna in occasione della Settimana Internazionale della Performance. Circa 350 persone transitarono nello stretto passaggio creato dai corpi nudi dei due artisti per entrare nel museo, prima che la polizia facesse irruzione e interrompesse l’evento. Il pubblico era costretto a venire in contatto fisicamente con i performers, scegliendo istintivamente se voltare il corpo verso l’uomo o verso la donna, aderendovi in modo totale.

L’altra proposta, che impressionò l’opinione pubblica e fece discutere sulla violenza intrinseca del rapporto tra uomini e donne fu Relation In Space, nel 1976, nella quale i due, di nuovo completamente nudi, erano posizionati alle estremità di una grande stanza. Prima camminando, poi affrettando il passo fino alla corsa i due corpi andavano l’uno verso l’altro, per un’ora, fino a schiantarsi frontalmente. All’epoca Abramovic e Ulai parlarono anche di energia e non solo di violenza, ma per tutta la loro vita artistica in ogni proposta pubblica i due evidenziarono gli aspetti conflittuali della relazione tra i sessi, fino ad arrivare a trascorre 8 ore consecutive a schiaffeggiarsi e urlarsi contro fino a non avere più voce. L’intenso epilogo di tale lotta di sentimenti, nel 2010, è stato il dialogo muto di sguardi tra i due dopo alcuni decenni di distacco, di fronte al pubblico del Moma a New York.

Quello che voglio dire è che mi pare ci sia un abisso inquietante che segnala una immane regressione tra la proposta di Abramovic e Ulai di affrontare i nodi della relazione tra i sessi evidenziando in pubblico il conflitto, rendendolo quindi politico, ma restando separati e mantenendo la libertà che il conflitto permette, e invece, nel caso dei due ammanettati, costringersi ad un assurdo, reciproco atto di impedimento e sottomissione, nel nome della paura di perdersi, piuttosto che dell’amore. Accanirsi a restare insieme, senza possibilità di evitarsi, di allontanarsi, di accedere liberamente, e per consenso reciproco, all’intimità se e come lo si desidera: un accanimento, appunto, che è l’esatto contrario dell’autonomia sulla quale una relazione dovrebbe fondarsi. Si tratta della pedissequa, e tombale, applicazione del senso della parola legami, che devia dalla sua assonanza con relazione e vira definitivamente nella prigionia.

Del resto come crescere nell’interezza di sé e realizzare rapporti non tossici e stritolanti senza luoghi e strumenti di riflessione critica sulle trappole mortifere, e talvolta realmente mortali, della retorica sull’amore: a scuola impariamo dalle opere poetiche e letterarie che ‘in guerra e in amore tutto è lecito’, che bisogna ‘espugnare il cuore dell’amata’, che vis grata puella e via così.

La rete, nella sua immensa ottusità, ha manifestato molto interesse alla vicenda dei due ammanettati, con le solite centinaia di migliaia di visualizzazioni, ponendo soprattutto un quesito centrale: ma come fate quando andate al bagno? Già, è questo il punto.

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