Ho trascorso talmente tanti anni in esilio da aver dimenticato la strada verso casa. Dieci anni è un lasso di tempo sufficiente a seppellire molte memorie: la strada che porta al luogo dove si è nati o a un cumulo di cadaveri. È così per la Siria, terra ignorata dai più. È così per i milioni di sfollati interni al paese o rifugiati altrove. Ed è, così, tristemente, per le centinaia di migliaia di morti che con il passare degli anni hanno perso il nome, perché chi li ricordava è morto a sua volta. Quella siriana è la tragedia senza memoria. Basta chiedere a qualcuno: “Ti ricordi cosa accadde nel 2011 in quel paese?”. La più probabile delle risposte è “no”. Sull’onda delle primavere arabe, scoppiate prima in Tunisia ed Egitto, anche in Siria i giovani scesero in piazza inizialmente chiedendo riforme. I primi assembramenti non autorizzati, perché vietati dalla legge di emergenza in vigore dal 1963, cominciarono a febbraio. “È proibito ed è gesto di maleducazione. Non portate rispetto al paese!” gridava da una jeep un rappresentante del partito al potere, il Ba’th, a centinaia di giovani riuniti fuori da una caserma di Damasco per chiedere la liberazione di alcuni arrestati. “Sapete di violare la legge? Non hanno autorizzato nessuna manifestazione!”. Uno dei manifestanti, preso da un po’ di coraggio, rispose “Signore, ci siamo trovati tutti qui per caso, a unirci sono stati i ragazzi portati in commissariato”.
Nei mesi successivi, quegli stessi ragazzi scesero nelle piazze di tutto il paese. Il governo rispose con la repressione. Violenta, incontenibile, sanguinaria. Questo spinse la piazza a chiedere la caduta del regime. E questo è un cambiamento radicale. In Siria, per anni, si è vissuti nell’illusione che l’attuale presidente Bashar al-Assad, perché considerato esterno alle dinamiche di potere – pur avendo ereditato la presidenza alla morte del padre – fosse all’oscuro dei soprusi. Nel 2009, quando mi trovavo a Damasco, giravano molte storie su Assad. “Giuro, l’ho visto uscire di casa e andare a fare la spesa da solo…”. Un altro amico, di Aleppo, un giorno raccontò che il sayd al rais, il signor presidente, fosse andato di notte da Damasco ad Aleppo e avesse licenziato in tronco tutti i dipendenti di un ufficio ministeriale, colpevoli di aver preso tangenti. Erano tutte storie volte a creare un’aurea di onestà e modernizzazione della figura di quell’uomo la cui foto, per legge, doveva essere esposta in ogni negozio. Allora, all’inizio della rivolta, c’era chi credeva che il presidente sarebbe uscito di casa e avrebbe preso parte anche lui alle manifestazioni. Così non avvenne. Quei giovani furono subito descritti come terroristi infiltrati nel paese. “Non c’è nessuna rivolta popolare ma un complotto organizzato dall’estero” ha ripetuto come un mantra Assad.
Poi, la guerra diventò tale quando anche i manifestanti si armarono. Le potenze estere parteggiarono chi per una fazione e chi per l’altra. Arrivò l’Isis, trovando terreno fertile nella miseria della distruzione creata dai bombardamenti aerei e dalle città devastate dall’aviazione russa e siriana. Aleppo e Homs, seconda e terza città siriana, subirono assedi medievali, con i rivoltosi per anni arroccati nel centro della città, spesso dovendo trasformare i cimiteri in campi da coltivare per sostenersi. Il mondo, poi, si concentrò sui crimini dello Stato Islamico, assorto dalla paura del radicalismo che ogni cosa confonde. E ora, che cosa rimane della Siria, cancellata da qualsiasi palinsesto? Non la giustizia. Nonostante il processo a Coblenza, in cui un paio di uomini appartenenti ai servizi segreti siriani vengono giudicati da un tribunale per crimini contro l’umanità, questo atto agli occhi dei siriani non ha nessun peso. Pare invece un gesto per dire che giustizia è stata fatta e avviare la normalizzazione dei rapporti con il governo di Assad. Proprio a Berlino, nel febbraio di un anno fa, si è recato Mazen al Hummada, ex carcerato, rifugiato in Olanda, convinto dall’ambasciata di Damasco che il governo aveva accettato di riprenderlo in patria in nome della riconciliazione.
È la mezzanotte del 22 febbraio, Hummada è sceso dall’aereo. È teso: “casa”, sussurra, mettendo piede sul suolo siriano. L’aeroporto è ricoperto in ogni dove di manifesti con il volto di Assad e Putin. Si accende una sigaretta. Fa una chiamata con whatsapp a un cugino in Germania che gli suggerisce di prendere il primo volo per qualsiasi altra destinazione. “Ti arresteranno” gli dice al telefono. Ma Mazen ha accettato la “riconciliazione”, così chiamano le autorità siriane l’opera di riprendere in patria i figli cattivi. Lui, dopo essere sopravvissuto miracolosamente alle torture, ha girato il mondo raccontando il suo dramma. “Non possono farmi nulla. Mi hanno dato la loro parola”. Tre anni prima era a Milano. Durante un incontro aveva raccontato le torture, come la sodomizzazione, i ferri roventi e la richiesta di urinare sui cadaveri. Nell’hotel dove alloggiava, vicino ai navigli, mostrò la schiena non più dritta a causa delle botte.
“Sono in patria” avrà detto passando i controlli. Poi un ufficiale lo ha portato in un ufficio e da quel momento Mazen è sparito. Scomparso come i centomila e più prigionieri politici, inghiottiti da una macchina letale, quella dei servizi segreti, creata cinquant’anni fa anche grazie all’aiuto di un nazista rifugiatosi nel paese, Alois Brunner.
Il regime siriano oggi è diventato un mostro silenzioso che inghiotte ogni voce di dissenso, oscurando qualsiasi luce e colore. Dieci anni, 3650 giorni, infinite sono le ore e infiniti sono i secondi per chi vive dentro la guerra. Un silenzio assordante copre la miseria siriana. Possiamo accettare che un regime continui a bombardare le città? Possiamo essere d’accordo con la tortura sistematica, inflitta agli oppositori, a chi dissente dalla figura del presidente? Probabilmente la risposta è sì, altrimenti non si spiega come mai la più grande tragedia umana del nostro secolo, la guerra più lunga e atroce, non abbia trovato una fine. E ora è troppo tardi.