Restano ancora profondamente attaccate al senso delle proteste di dieci anni fa e alla necessità di andare avanti e rendere il mondo migliore. Nel loro caso attraverso l’attivismo, il giornalismo e l’istruzione. Ecco le loro storie
Nei dieci anni della tragedia siriana, dove all’ondata di manifestazioni pacifiche contro il regime di Bashar al Assad del 2011 si è presto affiancata una sanguinosa guerra civile, le donne hanno giocato un ruolo molto importante, pur rimanendo spesso ai margini del proscenio mediatico. Quelle di Wafa, Layla e Dima sono solo alcune delle tante storie inedite di donne siriane che oggi, a dieci anni di distanza da quelle sollevazioni di piazza, restano ancora profondamente attaccate al senso di quelle proteste o, perlomeno, alla necessità di andare avanti e rendere il mondo migliore.
Wafa Mustafa – Era lì mentre il vento della protesta iniziava a soffiare sulla Siria nei primi mesi del 2011. Oggi che vive e lavora come giornalista e attivista in Germania, di quei giorni ricorda le primissime manifestazioni, nate come movimento di solidarietà verso gli altri paesi arabi in rivolta: la Tunisia, che aveva deposto Zeine el Abiddin Ben Ali, l’Egitto di Hosni Mubarak e anche la Libia di Muammar Gheddafi. «Ero andata a manifestare davanti all’ambasciata libica», racconta a Ilfattoquotidiano.it. «Sostenevamo la rivoluzione in Libia, ma in fondo tutti sapevano perché eravamo lì. La gente iniziò a cantare “solo un traditore uccide la sua stessa gente” e allora fu chiaro che la rivoluzione stava arrivando anche da noi. Avevo dieci anni e con me c’era anche mio padre», prosegue Wafa. Il padre, arrestato dal regime siriano più di sette anni fa, risulta tuttora scomparso e Wafa non ha sue notizie da allora. Non smette, però, di cercare la verità sulla sorte del genitore, partecipando alle campagne a sostegno di tutti i desaparecidos siriani, inghiottiti dalle carceri del regime.
Da buona giornalista, ancora oggi è convinta che una parte essenziale della rivoluzione sia stata la nascita di una nuova generazione di mediattivisti e reporter indipendenti. «Dieci anni fa – racconta Wafa – eravamo entusiasti all’idea che potessero esistere media indipendenti in grado di mettere il regime di fronte alle sue responsabilità, senza il timore di detenzioni e torture. La rivoluzione ha reso quel sogno possibile, per la prima volta». Ciononostante «quasi immediatamente è iniziata la repressione e molti mediattivisti sono stati arrestati», prosegue la giovane giornalista. «Questo però non ha impedito a tanti uomini e donne coraggiosi di denunciare i crimini di guerra e di raccontare al mondo cosa stava succedendo. Abbiamo pensato che se solo il mondo avesse saputo, avrebbero agito. I giornalisti siriani continuano ad operare nord-ovest della Siria, stretti però tra l’incudine di gruppi estremisti e le forze del regime», conclude la reporter.
Layla Hasso – Tra coloro che ancora oggi in Siria si adoperano per resistere, nonostante la guerra e l’estremismo, c’è Layla Hasso, Advocacy Manager di Hurras Network, una rete indipendente per la protezione dei diritti dell’infanzia. «Non potevo sopportare l’idea che un bambino perdesse la madre o il padre solo perché quest’ultimo chiedeva la libertà», racconta Layla, ricordando i primi mesi della rivolta contro Assad. «Non potevo resistere al pensiero che ci fossero bambini a cui viene negato il sostegno necessario», prosegue. «Hurras – spiega ancora Layla – nasce per fornire protezione urgente ai bambini in Siria, poiché i minori sono le persone più colpite dalla guerra. La nostra rete è diventata la voce più forte nel sostenere la protezione dei bambini dall’orribile impatto del conflitto e nel fornire loro supporto urgente. Con il nostro lavoro sosteniamo scuole, insegnanti e famiglie, per garantire che i bambini abbiano accesso all’istruzione sostegno psicologico nei casi, frequenti, di minori traumatizzati».
Dima Ghanoum – Anche Dima trova nel diritto all’istruzione la sua missione. Lo scoppio della rivoluzione nel 2011, anno in cui si è laureata, per lei ha significato innanzitutto la possibilità di creare un sistema educativo più equo e libero. Oggi lavora come dirigente scolastico in un istituto di Daret Izza, nella zona rurale a nord di Aleppo. Di sé stessa dice: «Il mio sogno è quello di aiutare i bambini a rimanere a scuola, ma è molto dura a causa dei bombardamenti e degli spostamenti forzati. Sogno una Siria libera, in grado di fornire un’istruzione migliore per tutti». Secondo un recente rapporto di Save The Children, in Siria almeno 2 milioni di bambini sono tagliati fuori dalla scuola e altri 1,3 milioni rischiano di perdere il diritto all’istruzione. Molti di loro, considerata l’età scolare, non hanno idea di cosa sia un mondo senza guerra.
Se le si chiede quali sono le maggiori difficoltà nel suo lavoro, Dima risponde: «La mancanza di sicurezza, lo sfollamento forzato delle famiglie e il bombardamento continuo, compreso quello delle scuole, rendono impossibile garantire ai bambini un’istruzione adeguata. Quando ci sono i bombardamenti, le famiglie smettono di mandare i figli a scuola per paura che vengano colpiti, quando i bambini perdono uno o entrambi i genitori, abbandonano la scuola per cercare lavoro».
Wafa, Layla, Dima. Tre donne tra le tante che in Siria hanno vissuto e combattuto nel corso di dieci lunghi anni di guerra. Un conflitto, quello siriano, costato la vita a mezzo milione di persone (con stime ferme al 2014) e lo spostamento forzato di metà della popolazione (tra rifugiati all’estero e sfollati interni). In una guerra sporca, dove interessi di attori regionali e globali si aggrovigliano in una matassa spesso difficile da districare, loro hanno cercato di rimboccarsi le maniche e di andare avanti nel tentare di migliorare le cose partendo dal quotidiano. Con l’attivismo, il giornalismo e con l’istruzione.