Quando il 4 ottobre 2019 nella sede della Questura di Trieste si scatenò l’inferno, un poliziotto che stava passeggiando con la propria famiglia, decise di intervenire. Ma non poteva prevedere che quel gesto di coraggio gli sarebbe costato una punizione, la sospensione per sei mesi dal servizio. Il provvedimento è stato adesso annullato dal Tar del Veneto, perché l’azione fu “l’espressione di un alto senso del dovere e delle istituzioni”, giustificato anche “dalla particolare qualificazione professionale del poliziotto, esperto di antiterrorismo e più alto in grado come istruttore di tecniche operative”. Quel giorno, il dominicano Alejandro Augusto Stephan Meran, di 29 anni, fermato per la rapina impropria di un motorino, aveva ucciso gli agenti Pierluigi Rotta 34 anni di Napoli e Matteo Demenego 31 anni di Velletri, ferendone un terzo. Assieme all’assassino c’era il fratello Carlysle Stephan Meran 32 anni, poi risultato estraneo all’episodio.
Fu un giorno tragico e di paura. Decine di agenti armati si mobilitarono, mentre si diffondeva la notizia che potesse trattarsi di un commando, rifugiatosi nei sotterranei. Arrivò il pubblico ministero di turno e fu lui ad avere una vivace discussione con l’agente, poi sfociata nel provvedimento disciplinare. La vicenda viene ricostruita dai giudici della prima sezione del tribunale amministrativo (presidente Maddalena Filippi, estensore Stefano Mielli). Il poliziotto aveva fatto ricorso con gli avvocati Vincenzo Rocco e Francesca Pia Testini, il ministero dell’Interno si era affidato all’Avvocatura dello Stato.
“Quel giorno il ricorrente ha appreso che c’era stata una sparatoria e ha deciso di intervenire… dalle notizie frammentarie raccolte risultava la presenza di un numero non definito di persone armate nascoste nei sotterranei”. Esperto in interventi del genere, aveva “chiesto ad un collega di far immediatamente controllare i filmati delle telecamere per verificare l’esatto numero degli aggressori” poi “è sceso nei sotterranei munito dell’arma d’ordinanza per procedere a una bonifica di tutti i locali”. Dopo aver “escluso la presenza di altre persone è uscito all’esterno assicurandosi che l’omicida, ferito, fosse portato in sicurezza all’ospedale”. Quindi è salito al terzo piano, negli uffici della Squadra Mobile perché gli avevano detto che uno degli attentatori si trovava lì. Non sapeva che alle 17.26 il fratello di Alejandro aveva già escluso altri incursori. “Alla presenza di molte persone che lo sorvegliavano, si è avvicinato con modi bruschi, lo ha fatto alzare per farlo portare in altro ufficio e puntando il dito verso di lui gli ha chiesto se ci fossero altre persone”. In quei momenti concitati il poliziotto non si è accorto del magistrato di turno. “Alcuni superiori presenti sul luogo – scrivono i giudici – hanno cercato di farlo desistere da tale azione perché la situazione si era in realtà già stabilizzata. Il ricorrente ha contestualmente avuto un alterco con il pm di turno presente che – avendo già assunto la direzione delle indagini – ha mostrato il proprio disappunto per il comportamento del ricorrente che non ha desistito dal continuare la propria azione e ha risposto con tono acceso affermando di agire per questioni di sicurezza”. Poi si era allontanato e scusato.
Per questo era stato sospeso per sei mesi dal servizio. Il ricorso sosteneva innanzitutto la buona fede, “in una situazione di assoluto, generalizzato allarme”. Poi sul fatto che non sapesse che i fermati fossero solo due. Inoltre, affermava che l’intervento rapidissimo non aveva ostacolato le indagini e andava contestualizzato. Infine, la sanzione era sproporzionata. I giudici, pur ritenendo che “sia stato commesso il fatto materiale contestato” , lo hanno letto in modo diverso. E’ stato, infatti, “sottovalutato il contesto in cui si sono svolti i fatti”, la gravità della sparatoria, la morte di due poliziotti, il grande allarme. L’agente era intervenuto “con abnegazione, esponendo a rischio la propria incolumità pur di portare a compimento l’azione di messa in sicurezza della Questura”. Inoltre, non poteva sapere che il fratello dell’assassino avesse escluso la presenza di altre persone. Anzi, scrivono i giudici, “non è mai stata data una comunicazione formale di cessato allarme, né è stato dato il ‘fine operazioni’, “ e “fino all’acquisizione dei filmati dell’ingresso, avvenuta grazie all’iniziativa del ricorrente solo alle ore 18.17, non vi era certezza sul numero di persone armate presenti nella Questura”. La squadra antiterrorismo era rimasta all’ingresso con le armi in pugno e anche negli uffici della Squadra Mobile c’era “un perdurante stato di allerta che non lasciava presumere la presenza di una situazione stabilizzata”. L’agente, infine, non sapeva che ci fosse già il pm. Tutto questo, secondo il Tar, ha reso il suo “un errore scusabile”.