Ci sono persone che muoiono per le quali si poteva fare di più. Molto di più. Non per tenerle in vita più a lungo. Ma per farle vivere meglio. Non perché si poteva guarirle dalle loro malattie incurabili. Ma perché si poteva dar loro dignità fino alle fine. È questo l’obiettivo delle cosiddette cure palliative e della terapia del dolore. È questo il traguardo di civiltà che abbiamo conquistato con la legge 38 del 15 marzo 2010. Undici anni dopo, però, la consapevolezza sulla prevenzione e il sollievo della sofferenza, fisica e psicologia, è ancora scarsa. Da parte di tutti. Pazienti, familiari, medici di base, ospedali, istituzioni. E l’accesso a questo prezioso servizio è a tutt’oggi fortemente iniquo. Non solo a livello nazionale, con il Nord che la fa da padrone. Ma anche all’interno di una stessa regione. “Ci sono disomogeneità imbarazzanti. È inaccettabile che il diritto a ricevere il trattamento del dolore dipenda dalla Asl di appartenenza. Purtroppo, fatta la legge non significa che il diritto sia riconosciuto per tutti”. A tirare le somme è Gino Gobber, direttore dell’unità operativa di Cure palliative dell’Azienda sanitaria trentina e presidente della Società italiana di cure palliative (Sicp). “In certi casi si tratta di inadempienza vera e propria, in altri di difficoltà oggettive nell’articolare l’offerta in territori montuosi e spopolati” continua. Qualsiasi sia la causa del ritardo, il diritto a non soffrire più inutilmente deve essere garantito al più presto a tutti i cittadini. “Investire nelle cure palliative vuol dire anche rendere più sostenibile il nostro Servizio sanitario nazionale – ricorda il medico -. La mancata risposta ai bisogni del paziente in fase terminale provoca il ricorso a ospedalizzazioni inappropriate, a tanti esami che non servono e a un’ostinazione terapeutica dannosa per il suo benessere”. Il risultato è che ci sono ancora tanti malati, soprattutto di cancro, che si spengono nella solitudine di un reparto di ospedale anziché nella propria casa tra l’affetto dei cari. Tra i deceduti per tumore, prendendo il triennio 2013-2015 (l’ultimo disponibile nella più recente Relazione al Parlamento sul tema, che risale ormai al 2019), quelli assistiti dalla rete di cure palliative a domicilio o in hospice sono stati il 25 percento.
Che cosa sono – Per cure palliative si intende l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali rivolti alla persona la cui malattia è caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non rispondendo più a trattamenti specifici. “Il fine non è più la guarigione ma il controllo dei sintomi, l’alleviamento del dolore e l’accompagnamento del malato nelle scelte terapeutiche e del luogo dove stare. Come ricorrere o meno a un ventilatore, in hospice o a casa propria”, chiarisce Gobber. È previsto un supporto sociale, spirituale e psicologico sia al paziente sia al nucleo familiare. I parenti, per esempio, vengono informati e guidati nel percorso per ottenere l’indennità di accompagnamento e l’assegno di invalidità. E aiutati nell’accettare la malattia e rielaborare il lutto.
Le cure palliative devono poter essere erogate in qualsiasi setting assistenziale. I nodi della rete sono: presidi ospedalieri, hospice, strutture residenziali (per anziani o disabili) e domicilio. “L’hospice è la soluzione per chi ha bisogno di un’assistenza più complessa, o in assenza di un caregiver, oppure per un ‘ricovero di sollievo’ in supporto al caregiver o in attesa di organizzare gli spazi domestici per le nuove esigenze del paziente dopo un ricovero ospedaliero” precisa Gobber. L’equipe deve avere specifiche competenze nel campo delle cure palliative e nella terapia del dolore ed essere formata dalle seguenti figure professionali: medico di medicina generale, specialista (oncologo, anestesista, geriatria, neurologo o radiologo), infermiere, psicologo e assistente sociale. “La disponibilità assistenziale deve essere h24, tramite consulenza telefonica o diretta”, evidenzia il presidente della società scientifica. “È l’unica rete clinica articolata anche a livello domiciliare e potrebbe essere un volano per tutte le cure croniche”, è l’appello che continua così: “Chiediamo che Regioni e aziende sanitarie diano pieno compimento alla normativa nazionale, soprattutto a livello domiciliare, l’anello della rete più debole. Servirebbe inoltre una cartella clinica informatizzata, se le informazioni non sono disponibili a tutti gli operatori subito, si perde tempo e l’assistenza rischia di essere meno efficace”.
A chi sono destinate – Hanno diritto agli interventi palliativi tutti i pazienti in fase terminale, e quindi irreversibile, di ogni malattia cronica ed evolutiva. Non solo il cancro dunque (benché i malati oncologici continuino a rappresentare la parte più consistente), ma anche le malattie neurologiche, respiratorie, cardiologiche, l’insufficienza renale. Lo scopo è garantire al paziente la massima qualità possibile di vita in tutte le fasi della malattia, incluse quelle precoci (si parla infatti anche di “cure palliative precoci” somministrate insieme a trattamenti curativi), fino all’ultimo respiro.
Criticità e reti carenti – “Gli specialisti in cure palliative sono carenti e manca informazione. Medici di base e Asl fanno poca richiesta di questi interventi rispetto ai reali bisogni della popolazione, la maggior parte degli invii in hospice proviene dagli ospedali, con il risultato che i malati fragili sul territorio vengon lasciati a loro stessi – denuncia Francesco Nigro Imperiale, oncologo e coordinatore per la Calabria della Società italiana di cure palliative -. Spesso si pensa che l’attivazione dell’adi, cioè dell’assistenza domiciliare integrata, sia sufficiente e invece c’è differenza. Il team palliativista deve riconoscere il livello di sofferenza del paziente, anche quando non è cosciente o non usa più la parola, e deve saper impiegare la sedazione palliativa per tutti i sintomi refrattari, cioè che non rispondono alle terapie, inclusi quelli precoci, per la gestione del dolore e del fine vita. Un gesto dell’occhio, una smorfia del viso, la rigidità muscolare, la valutazione del respiro, movimenti irrequieti del corpo, le ginocchia piegate sono tutti segnali che lo specialista deve essere in grado di interpretare per stabilire il grado di dolore e una sedazione mirata”. Laddove non arriva il pubblico, c’è il privato accreditato. “Molti hospice convenzionati con la sanità pubblica hanno attivato delle unità a domicilio”. Anche l’alleanza con il terzo settore è indispensabile. “Senza l’aiuto di associazioni e fondazioni no profit alcune realtà sarebbero scoperte. Questi enti mettono a disposizione l’auto per l’assistenza domiciliare, pagano l’infermiere, lo psicologo o il medico, e organizzano corsi di formazione”, conclude Gobber.
Il deputato e medico M5s Giorgio Trizzino, con un emendamento al decreto Rilancio, ha promosso a partire dall’anno accademico 2021-2022 l’istituzione della prima scuola di specializzazione in Medicina e Cure palliative e di un corso ad hoc all’interno della specialità pediatrica. “Il mio auspicio – spiega al ilfattoquotidiano.it – è che prima o poi la Medicina palliativa diventi materia di studio in tutte le scuole di specialità. Tutti i medici, dal chirurgo al rianimatore, devono avere cognizione del dolore umano e del limite del proprio approccio terapeutico, devono cioè sapere quando fermarsi. E poi – aggiunge -, bisogna puntare a vincolare l’1,5 per cento del Fondo sanitario nazionale per le cure palliative in modo che le Regioni siano obbligate a garantirle su tutto il territorio. Troppi cittadini ne ignorano ancora l’esistenza e purtroppo anche tanti medici. Non possiamo più limitarci a salvare vite, va riconosciuta anche qualità e dignità alla persona e questo aspetto è stato trascurato nei malati di Covid”.
Le cure palliative pediatriche: queste sconosciute – In ambito pediatrico le cure palliative sono maggiormente penalizzate. La causa? I pediatri e gli infermieri esperti sono del tutto insufficienti e le famiglie poco sensibilizzate. “Appena il 5 per cento dei bambini con bisogni di cure palliative, da quando c’è una diagnosi di inguaribilità, vi accede a livello nazionale. E il 15 per cento è per i bambini in fase terminale – dichiara Franca Benini, responsabile dell’hospice pediatrico del policlinico universitario di Padova e membro della commissione cure palliative del ministero della Salute -. C’è un gap tra domanda e posti letto disponibili negli hospice. Servono più posti e una rete periferica: più riusciamo a dare sollievo alle famiglie attraverso l’assistenza domiciliare meno saranno i ricoveri”. Luca Manfredini, direttore dell’hospice pediatrico dell’ospedale Gaslini di Genova, spiega: “Per un limite culturale in Italia le cure palliative vengono associate soltanto al fine vita. Per questo motivo ci sono genitori che fanno fatica ad accettare la presa in carico del proprio figlio durante il corso della malattia”. I bambini destinatari del servizio in realtà, continua Manfredini, “sono tutti quelli con una diagnosi di inguaribilità, bisogni assistenziali complessi e a rischio di vita o per progressione della malattia di base o per complicanze legate alla stessa”. Si tratta soprattutto di casi di patologia onocologica, di malattia metabolica genetica, encefalopatia epilettica, tetraparesi spastica o paralisi cerebrale. “In questo momento su quattro posti letto uno è occupato da un bambino con il cancro e gli altri tre da malati rari – afferma il responsabile dell’hospice genovese -. E su 60 pazienti che seguiamo in un anno, solo 15 hanno una patologia oncologica. Grazie al progresso nelle cure ci sono più pazienti che sopravvivono ma hanno nuovi bisogni assistenziali”. Il tempo di presa in carico può durare tutta la vita: “Un anno e mezzo in media per un caso di tumore, fino al compimento dei 18 anni o per tutta la vita per i pazienti non oncologici la cui malattia è insorta in età pediatrica – informa Manfredini -. Il nostro compito consiste nella gestione del dolore e di tutti gli altri sintomi disturbanti, come fatica respiratoria e astenia, nell’assicurare un’adeguata alimentazione, per via venosa o tramite sondino se il bambino non deglutisce, nel favorire il reinserimento scolastico e sociale”. I medici devono essere pronti a rispondere a domande impegnative aiutando i genitori a trovare un senso nella tragedia. Per Manfredini è un insegnamento spirituale: “Perché è successo a mio figlio? Ci chiedono, e noi dobbiamo insieme a loro trasformare il limite in una risorsa, spostando l’obiettivo sugli aspetti che si possono modificare. Se ad esempio il bambino ha un’invalidità alle gambe non può giocare a calcio ma può diventare un campione di scacchi”.
Diritti
Terapia del dolore, tra carenza di specialisti e inadempienze: il diritto alle cure palliative non viene ancora rispettato (11 anni dopo la legge)
A undici anni dalla legge 38 del 15 marzo 2010 l’accesso a questo prezioso servizio è fortemente iniquo. "Ci sono disomogeneità imbarazzanti. È inaccettabile che il diritto a ricevere il trattamento del dolore dipenda dalla Asl di appartenenza. Purtroppo, fatta la legge non significa che il diritto sia riconosciuto per tutti”, dice Gino Gobber, presidente della Società italiana di cure palliative. "Bisogna puntare a vincolare l’1,5 per cento del Fondo sanitario nazionale per le cure palliative in modo che le Regioni siano obbligate a garantirle su tutto il territorio", dice il deputato M5s Trizzino, autore di un emendamento al decreto Rilancio. Molto indietro è il fronte delle cure palliative pediatriche
Ci sono persone che muoiono per le quali si poteva fare di più. Molto di più. Non per tenerle in vita più a lungo. Ma per farle vivere meglio. Non perché si poteva guarirle dalle loro malattie incurabili. Ma perché si poteva dar loro dignità fino alle fine. È questo l’obiettivo delle cosiddette cure palliative e della terapia del dolore. È questo il traguardo di civiltà che abbiamo conquistato con la legge 38 del 15 marzo 2010. Undici anni dopo, però, la consapevolezza sulla prevenzione e il sollievo della sofferenza, fisica e psicologia, è ancora scarsa. Da parte di tutti. Pazienti, familiari, medici di base, ospedali, istituzioni. E l’accesso a questo prezioso servizio è a tutt’oggi fortemente iniquo. Non solo a livello nazionale, con il Nord che la fa da padrone. Ma anche all’interno di una stessa regione. “Ci sono disomogeneità imbarazzanti. È inaccettabile che il diritto a ricevere il trattamento del dolore dipenda dalla Asl di appartenenza. Purtroppo, fatta la legge non significa che il diritto sia riconosciuto per tutti”. A tirare le somme è Gino Gobber, direttore dell’unità operativa di Cure palliative dell’Azienda sanitaria trentina e presidente della Società italiana di cure palliative (Sicp). “In certi casi si tratta di inadempienza vera e propria, in altri di difficoltà oggettive nell’articolare l’offerta in territori montuosi e spopolati” continua. Qualsiasi sia la causa del ritardo, il diritto a non soffrire più inutilmente deve essere garantito al più presto a tutti i cittadini. “Investire nelle cure palliative vuol dire anche rendere più sostenibile il nostro Servizio sanitario nazionale – ricorda il medico -. La mancata risposta ai bisogni del paziente in fase terminale provoca il ricorso a ospedalizzazioni inappropriate, a tanti esami che non servono e a un’ostinazione terapeutica dannosa per il suo benessere”. Il risultato è che ci sono ancora tanti malati, soprattutto di cancro, che si spengono nella solitudine di un reparto di ospedale anziché nella propria casa tra l’affetto dei cari. Tra i deceduti per tumore, prendendo il triennio 2013-2015 (l’ultimo disponibile nella più recente Relazione al Parlamento sul tema, che risale ormai al 2019), quelli assistiti dalla rete di cure palliative a domicilio o in hospice sono stati il 25 percento.
Che cosa sono – Per cure palliative si intende l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali rivolti alla persona la cui malattia è caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non rispondendo più a trattamenti specifici. “Il fine non è più la guarigione ma il controllo dei sintomi, l’alleviamento del dolore e l’accompagnamento del malato nelle scelte terapeutiche e del luogo dove stare. Come ricorrere o meno a un ventilatore, in hospice o a casa propria”, chiarisce Gobber. È previsto un supporto sociale, spirituale e psicologico sia al paziente sia al nucleo familiare. I parenti, per esempio, vengono informati e guidati nel percorso per ottenere l’indennità di accompagnamento e l’assegno di invalidità. E aiutati nell’accettare la malattia e rielaborare il lutto.
Le cure palliative devono poter essere erogate in qualsiasi setting assistenziale. I nodi della rete sono: presidi ospedalieri, hospice, strutture residenziali (per anziani o disabili) e domicilio. “L’hospice è la soluzione per chi ha bisogno di un’assistenza più complessa, o in assenza di un caregiver, oppure per un ‘ricovero di sollievo’ in supporto al caregiver o in attesa di organizzare gli spazi domestici per le nuove esigenze del paziente dopo un ricovero ospedaliero” precisa Gobber. L’equipe deve avere specifiche competenze nel campo delle cure palliative e nella terapia del dolore ed essere formata dalle seguenti figure professionali: medico di medicina generale, specialista (oncologo, anestesista, geriatria, neurologo o radiologo), infermiere, psicologo e assistente sociale. “La disponibilità assistenziale deve essere h24, tramite consulenza telefonica o diretta”, evidenzia il presidente della società scientifica. “È l’unica rete clinica articolata anche a livello domiciliare e potrebbe essere un volano per tutte le cure croniche”, è l’appello che continua così: “Chiediamo che Regioni e aziende sanitarie diano pieno compimento alla normativa nazionale, soprattutto a livello domiciliare, l’anello della rete più debole. Servirebbe inoltre una cartella clinica informatizzata, se le informazioni non sono disponibili a tutti gli operatori subito, si perde tempo e l’assistenza rischia di essere meno efficace”.
A chi sono destinate – Hanno diritto agli interventi palliativi tutti i pazienti in fase terminale, e quindi irreversibile, di ogni malattia cronica ed evolutiva. Non solo il cancro dunque (benché i malati oncologici continuino a rappresentare la parte più consistente), ma anche le malattie neurologiche, respiratorie, cardiologiche, l’insufficienza renale. Lo scopo è garantire al paziente la massima qualità possibile di vita in tutte le fasi della malattia, incluse quelle precoci (si parla infatti anche di “cure palliative precoci” somministrate insieme a trattamenti curativi), fino all’ultimo respiro.
Criticità e reti carenti – “Gli specialisti in cure palliative sono carenti e manca informazione. Medici di base e Asl fanno poca richiesta di questi interventi rispetto ai reali bisogni della popolazione, la maggior parte degli invii in hospice proviene dagli ospedali, con il risultato che i malati fragili sul territorio vengon lasciati a loro stessi – denuncia Francesco Nigro Imperiale, oncologo e coordinatore per la Calabria della Società italiana di cure palliative -. Spesso si pensa che l’attivazione dell’adi, cioè dell’assistenza domiciliare integrata, sia sufficiente e invece c’è differenza. Il team palliativista deve riconoscere il livello di sofferenza del paziente, anche quando non è cosciente o non usa più la parola, e deve saper impiegare la sedazione palliativa per tutti i sintomi refrattari, cioè che non rispondono alle terapie, inclusi quelli precoci, per la gestione del dolore e del fine vita. Un gesto dell’occhio, una smorfia del viso, la rigidità muscolare, la valutazione del respiro, movimenti irrequieti del corpo, le ginocchia piegate sono tutti segnali che lo specialista deve essere in grado di interpretare per stabilire il grado di dolore e una sedazione mirata”. Laddove non arriva il pubblico, c’è il privato accreditato. “Molti hospice convenzionati con la sanità pubblica hanno attivato delle unità a domicilio”. Anche l’alleanza con il terzo settore è indispensabile. “Senza l’aiuto di associazioni e fondazioni no profit alcune realtà sarebbero scoperte. Questi enti mettono a disposizione l’auto per l’assistenza domiciliare, pagano l’infermiere, lo psicologo o il medico, e organizzano corsi di formazione”, conclude Gobber.
Il deputato e medico M5s Giorgio Trizzino, con un emendamento al decreto Rilancio, ha promosso a partire dall’anno accademico 2021-2022 l’istituzione della prima scuola di specializzazione in Medicina e Cure palliative e di un corso ad hoc all’interno della specialità pediatrica. “Il mio auspicio – spiega al ilfattoquotidiano.it – è che prima o poi la Medicina palliativa diventi materia di studio in tutte le scuole di specialità. Tutti i medici, dal chirurgo al rianimatore, devono avere cognizione del dolore umano e del limite del proprio approccio terapeutico, devono cioè sapere quando fermarsi. E poi – aggiunge -, bisogna puntare a vincolare l’1,5 per cento del Fondo sanitario nazionale per le cure palliative in modo che le Regioni siano obbligate a garantirle su tutto il territorio. Troppi cittadini ne ignorano ancora l’esistenza e purtroppo anche tanti medici. Non possiamo più limitarci a salvare vite, va riconosciuta anche qualità e dignità alla persona e questo aspetto è stato trascurato nei malati di Covid”.
Le cure palliative pediatriche: queste sconosciute – In ambito pediatrico le cure palliative sono maggiormente penalizzate. La causa? I pediatri e gli infermieri esperti sono del tutto insufficienti e le famiglie poco sensibilizzate. “Appena il 5 per cento dei bambini con bisogni di cure palliative, da quando c’è una diagnosi di inguaribilità, vi accede a livello nazionale. E il 15 per cento è per i bambini in fase terminale – dichiara Franca Benini, responsabile dell’hospice pediatrico del policlinico universitario di Padova e membro della commissione cure palliative del ministero della Salute -. C’è un gap tra domanda e posti letto disponibili negli hospice. Servono più posti e una rete periferica: più riusciamo a dare sollievo alle famiglie attraverso l’assistenza domiciliare meno saranno i ricoveri”. Luca Manfredini, direttore dell’hospice pediatrico dell’ospedale Gaslini di Genova, spiega: “Per un limite culturale in Italia le cure palliative vengono associate soltanto al fine vita. Per questo motivo ci sono genitori che fanno fatica ad accettare la presa in carico del proprio figlio durante il corso della malattia”. I bambini destinatari del servizio in realtà, continua Manfredini, “sono tutti quelli con una diagnosi di inguaribilità, bisogni assistenziali complessi e a rischio di vita o per progressione della malattia di base o per complicanze legate alla stessa”. Si tratta soprattutto di casi di patologia onocologica, di malattia metabolica genetica, encefalopatia epilettica, tetraparesi spastica o paralisi cerebrale. “In questo momento su quattro posti letto uno è occupato da un bambino con il cancro e gli altri tre da malati rari – afferma il responsabile dell’hospice genovese -. E su 60 pazienti che seguiamo in un anno, solo 15 hanno una patologia oncologica. Grazie al progresso nelle cure ci sono più pazienti che sopravvivono ma hanno nuovi bisogni assistenziali”. Il tempo di presa in carico può durare tutta la vita: “Un anno e mezzo in media per un caso di tumore, fino al compimento dei 18 anni o per tutta la vita per i pazienti non oncologici la cui malattia è insorta in età pediatrica – informa Manfredini -. Il nostro compito consiste nella gestione del dolore e di tutti gli altri sintomi disturbanti, come fatica respiratoria e astenia, nell’assicurare un’adeguata alimentazione, per via venosa o tramite sondino se il bambino non deglutisce, nel favorire il reinserimento scolastico e sociale”. I medici devono essere pronti a rispondere a domande impegnative aiutando i genitori a trovare un senso nella tragedia. Per Manfredini è un insegnamento spirituale: “Perché è successo a mio figlio? Ci chiedono, e noi dobbiamo insieme a loro trasformare il limite in una risorsa, spostando l’obiettivo sugli aspetti che si possono modificare. Se ad esempio il bambino ha un’invalidità alle gambe non può giocare a calcio ma può diventare un campione di scacchi”.
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Il governo rilancia il nucleare: il cdm ha approvato il ddl delega. I primi reattori “verso il 2030”
Roma, 28 feb. (Adnkronos/Labitalia) - Btm 2025 si conclude con una conferma del successo della manifestazione, che ha ribadito la sua centralità nel panorama turistico nazionale. Oltre 500 gli espositori, inclusi comuni, associazioni di categoria e aziende dei vari segmenti, su 16mila metri quadrati di area espositiva, la partecipazione di 80 buyer nazionali e internazionali, più di 100 eventi e 400 relatori hanno animato tre giorni intensi di incontri, approfondimenti e opportunità di business che hanno visto 49.950 ingressi alla Fiera del Levante di Bari, con numeri in leggero aumento rispetto al 2024.
Il tema di questa edizione, 'Il viaggio nel viaggio', ha riscosso grande interesse, portando alla luce nuove prospettive sul concetto stesso di viaggio e sulle trasformazioni che stanno investendo il settore. Mary Rossi, responsabile eventi Btm, ha sottolineato il valore di questa riflessione: "Da Btm 2025 ci portiamo a casa tante interessanti riflessioni. Uno degli aspetti chiave che volevamo far emergere con il tema 'Il viaggio nel viaggio' è il percorso verso la destinazione scelta, perché crediamo che sia proprio il cammino a generare emozioni, sensazioni e pensieri che ci fanno crescere. Abbiamo affrontato il tema in molteplici declinazioni, spingendoci anche oltre i confini terrestri con il turismo spaziale. Btm è stata un’occasione di confronto che ha arricchito operatori e professionisti con nuovi strumenti da applicare nel loro lavoro".
L’edizione 2025 ha messo al centro argomenti chiave come digitalizzazione, sostenibilità, intelligenza artificiale, turismo esperienziale, extralberghiero e wedding tourism. Tra i momenti più apprezzati, i panel su smart destination, big data per il turismo, nuove strategie di marketing e il ruolo della narrazione nella scelta delle destinazioni. Numerosi gli interventi istituzionali e dei principali protagonisti del settore. Il ministro del Turismo, Daniela Santanché, ha aperto la manifestazione con un intervento in streaming sulle strategie nazionali per la crescita del turismo, sottolineando l’importanza dell’innovazione e della sostenibilità per il futuro del settore. Tra i tanti interventi, l’onorevole Gianluca Caramanna, il senatore Gianmarco Centinaio, la presidente di Federturismo Confindustria, Marina Lalli, Alessandro Callari, Regional Manager di Booking.com, Antonio Laveneziana,Territory Manager Italy di Airbnb, Valentina Sumini, Architetta dello spazio e Roberta Milano, marketing strategist.
Tra le novità più apprezzate di questa edizione, il focus sul turismo extralberghiero, che ha visto una grande partecipazione da parte di operatori e property manager, e il T-Trade, ampliato con un’area business dedicata al turismo organizzato e alle destinazioni internazionali che ha visto ampia vivacità durante i tre giorni grazie alla presenza di espositori di spicco come Msc Crociere, Azemar, Croazia, Malta, Polonia, Seychelles, Visit Brussels e Repubblica Ceca. Confermata l’ottima accoglienza per le sezioni Btm Gusto, che ha valorizzato il turismo enogastronomico, e Btm Say Yes, dedicato al wedding tourism, con un proprio programma buyer. Grande fermento anche per l’Apulia Tourism Investment, che ha ospitato il Forum della Tornanza, un momento di confronto sulle nuove opportunità di investimento e sviluppo per il turismo in Puglia.
Nevio D’Arpa, Ceo & founder di Btm, ha espresso soddisfazione per il successo dell’evento e ha voluto ringraziare le istituzioni: "Un plauso particolare va all’assessore al Turismo, Gianfranco Lopane, per il supporto che ha dato alla manifestazione e per la visione strategica sul futuro del turismo in Puglia. La differenza che rende Btm unica è il nostro investimento nei contenuti: qui non ci limitiamo a mettere in mostra prodotti e destinazioni, ma costruiamo un dibattito di qualità che aiuta gli operatori a comprendere e anticipare i cambiamenti del settore. Il Comitato scientifico di Btm ha lavorato con grande attenzione per costruire un programma ricco di spunti e soluzioni. I numeri ci vedono in una leggera ma costante crescita, segno che il format funziona e che BtmM continua a rappresentare un punto di riferimento per il turismo del Sud Italia".
Gaetano Frulli, presidente della Fiera del Levante, ha sottolineato il valore strategico dell’evento: "La grande partecipazione e l’alta qualità degli operatori presenti hanno ribadito l’importanza di questa manifestazione".
L’assessore al turismo di Regione Puglia, Gianfranco Lopane, ha aggiunto: “I progressi fatti da Btm negli anni sono sotto gli occhi di tutti, già oggi è uno dei più importanti eventi fieristici del turismo e ci auguriamo che questa crescita prosegua in futuro per il bene del turismo e della Puglia”
Luca Scandale, direttore generale di Pugliapromozione, ha evidenziato il valore della collaborazione tra pubblico e privato per lo sviluppo turistico della regione: "La proficua sinergia tra gli operatori del turismo realizzata a Btm, in collaborazione con il Buy Puglia Meet & Connect a cura di Pugliapromozione, rappresenta una solida base per la crescita qualitativa del turismo in Puglia. E per questo motivo la collaborazione tra pubblico e privato resta essenziale".
Dopo il successo di questa edizione, l’organizzazione di Btm è già al lavoro per l’edizione 2026, con l’obiettivo di ampliare ulteriormente l’evento e offrire nuovi spunti di riflessione sul turismo del futuro.
Roma, 28 feb. (Adnkronos) - “Nello studio ovale è andata in scena la rappresentazione plastica del bullismo diplomatico con cui la nuova amministrazione americana intenderebbe governare il mondo. Trump bullizza e umilia Zelensky e attraverso di lui il popolo ucraino che da tre anni resiste alla violenta aggressione russa, difendendo i confini e con essi i valori dell’Europa. Cosa ne pensa Meloni dell’atteggiamento indegno del suo amico Trump verso Zelensky? La premier condannerà l’atteggiamento del presidente americano o fuggirà anche stavolta facendo finta di nulla?”. Lo afferma il segretario di Più Europa Riccardo Magi.
Roma, 28 feb. (Adnkronos) - "Bulli che aggrediscono nello studio ovale, davanti alla stampa, un leader coraggioso che guida un popolo che difende la sua libertà dall’aggressione di un dittatore assassino. A questo sono ridotti gli Usa oggi. I leader europei dovrebbero mostrare meno compiacenza e più forza. I bulli si affrontano così. #StandWithUkraine oggi e sempre". Lo scrive Carlo Calenda.
Roma, 28 feb. (Adnkronos) - La proposta è stata lanciata da Michele Serra su Repubblica. "Una piazza per l'Europa". Senza bandiere di partito, solo il "blu monocromo della piazza europeista". Per la libertà e l'unità dell'Ue, sotto attacco come mai prima d'ora. "Qualcosa che dica, con la sintesi a volte implacabile degli slogan: 'qui o si fa l’Europa o si muore'", scrive Serra. La possibile data e il luogo li ha suggeriti Ivan Scalfarotto di Iv, il primo tra i politici stamattina ad aderire: "Facciamola a Milano, presto, il 15 marzo. Tutti in piazza per l’Europa". Da lì in poi le adesioni "al sassolino lanciato nello stagno", come lo ha definito Serra, si sono moltiplicate.
A partire da Italia Viva e poi Azione e Più Europa. Mezzo Pd ha mandato via social dichiarazioni a sostegno dell'iniziativa e domani ne parlerà Elly Schlein su Repubblica. Anche Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni accolgono l'appello per la piazza. Ci tengono però, in un momento in cui si parla di riarmo europeo, a rimarcare la posizione: no a spendere in armi, sì alla spesa sociale. Chi resta defilato per ora è Giuseppe Conte oggi impegnato nel lancio della manifestazione M5S del 5 aprile. "Non ci confondiamo con le piazze, io ho parlato della nostra", ha risposto il leader pentastellato interpellato dai cronisti.
"Noi ci siamo: gli Stati Uniti d’Europa sono un sogno, ma l’Europa unita e forte è una necessità", twitta di buon mattino Matteo Renzi. Poi Carlo Calenda: "Aderiamo con convinzione all'appello lanciato da Michele Serra per una piazza che celebri il significato profondo dell'essere europei. Ci saremo. Oggi più che mai. Senza simboli di partito ma uniti, insieme, per ribadire e difendere i nostri valori". Riccardo Magi di Più Europa aderisce e lancia una possibile data alternativa: "Una grande piazza che potrebbe essere organizzata il 25 di marzo, giorno in cui si celebra la firma del Trattato di Roma".
Nel Pd le adesioni arrivano man mano allo spicciolata. Molte dall'area riformista dem con Piero De Luca, Simona Malpezzi, Piero Fassino, Lia Quartapelle, tra gli altri. Quindi Stefano Bonaccini: "Con tutto quello che sta accadendo nel mondo, in Occidente in particolare: se non ora, quando?". Aderiscono anche Matteo Ricci, Sandra Zampa, Gianni Cuperlo che scrive: "Caro Michele, fissa giorno, ora, piazza e città. Io, come tante e tanti, ci sarò". Poi arriva anche il post del capodelegazione del Pd in Europa, Nicola Zingaretti: "Ottima idea una piazza per rilanciare un’Europa più forte e unita. Incontrarsi sotto tante bandiere europee per costruire il futuro. Noi ci siamo".
Ne parla anche l'ex-commissario Ue, Paolo Gentiloni, intervenendo alla scuole di politiche per amministratori di Dario Nardella: "Ho visto l’appello di Michele Serra a fare una manifestazione tutti insieme, senza bandiere, ecco penso che anche questo è un regalo del nuovo presidente degli Stati Uniti".
Accolgono l'appello anche Bonelli e Fratoianni puntualizzando la loro posizione sull'Ue. Scrive Bonelli: "Certamente con alcuni avremo visioni diverse su quale Europa vogliamo, ma la nostra è un’Europa che costruisce la pace, non lavora per il riarmo e sceglie la via del dialogo e della diplomazia e si batte per politiche che contrastino la crisi climatica". Considerazioni simili a quelle di Fratoianni: "Giustissimo dire 'o si fa l'Europa o si muore'. Ma perchè l'Europa si faccia, e si salvi, ha bisogno di capire quale è la sua prospettiva che per noi non può che essere quella di un'Europa di pace e non quella di scorporare dal patto di stabilità le spese per il riarmo, ma che lo si faccia semmai per la spesa sociale. Se dovesse continuare a ripetere gli errori che oggi la rendono così fragile, l'Europa non solo non si farà, ma rischia di non farcela".
Roma, 28 feb. (Adnkronos/Labitalia) - Nelle scorse settimane si è tenuto il secondo Congresso confederale di Cne e Federimprese Europa alla presenza di Enti, istituzioni e organizzazioni sindacali facenti parte del circuito confederale e non. Il presidente nazionale, Mary Modaffari, confermata alla guida della Confederazione, ha esposto le linee guida programmatiche confederative delle due realtà che in poco tempo hanno raccolto una consenso importante nel mondo sindacale datoriale.
"L’attuale fase storica è segnata dallo sviluppo di tecnologie incredibilmente innovative, che mutano le modalità produttive. Altresì l’apertura dei mercati e l’ascesa di importanti realtà economiche extra-occidentali stanno spostando il baricentro del mondo. Pure in Occidente assistiamo alla crisi delle logiche istituzionali che hanno caratterizzato la scena pubblica dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La Cne imprese si inserisce entro questo quadro, dato che, da realtà giovane e innovativa quale siamo, ci candidiamo a interpretare con decisione le forze produttive del Paese, che intendiamo difendere e far crescere. Vogliamo condividere i nostri progetti con tutte le istituzioni pubbliche e private, con le altre realtà associative degli imprenditori e dei lavoratori, con il mondo dell’informazione e della cultura. Tutto ciò per costruire un’Italia più libera e forte, meglio in grado di rispondere alle sfide del presente", ha detto nel suo discorso di apertura congressuale la presidente Modaffari.
"Vogliamo individuare, con l’aiuto di tutti, soluzioni condivise che sappiano affrontare i problemi strutturali. Le nostre imprese sono tra le migliori al mondo e i nostri lavoratori non hanno eguali. Le une e gli altri, però, potranno esprimersi al meglio se la politica farà la sua parte: ciò che raramente è avvenuto in passato. Abbiamo allora il compito di costruire, insieme, un quadro di stabilità che sia capace di favorire progetti e investimenti di lungo periodo. Noi siamo un’associazione di associazioni e di Federazioni: siamo una Confederazione e questo è uno dei nostri punti di forza in quanto ogni realtà associata nel contesto confederale porta le proprie esperienze in diversi settori integrandosi le une sulle altre. Un sistema nuovo di associazionismo che vede un solo corpo con tanti parti imprenditoriali. Il nostro obiettivo è contribuire al rinnovamento della società italiana e cercheremo di farlo dialogando con le altre realtà associative e con il governo", ha concluso.
Roma, 28 feb. (Adnkronos) - "Non levatemi i miei sogni", cantava Vincenzo Capua nel brano autobiografico 'Faccio il cantautore' che dava il titolo al suo album uscito l'anno scorso. E adesso quella stessa passione lo porterà sabato 8 marzo sul palco della finale del San Marino Song Contest, il concorso che incoronerà l'artista che rappresenterà la Repubblica del Titano all'Eurovision Song Contest. Capua, entrato tra i 20 finalisti, presenta al concorso di San Marino il brano inedito 'Sei sempre tu'. Una scelta coraggiosa, visto che il concorso permette di presentare anche brani già pubblicati, purché usciti non prima di settembre 2024. "Certo, ci sono brani già noti, quello di Gabry Ponte poi è già un tormentone. E questo probabilmente è un bene per lui perché è già nelle orecchie e nel cuore del pubblico e della giuria. Però è previsto dal regolamento che si possano portare anche brani già editi, quindi è stata una mia precisa scelta presentarmi con un inedito. Ho voluto lavorare a questo pezzo come fosse per Sanremo. Mi piace che questa canzone venga scoperta per l'occasione: sarà più complicato ma anche più emozionante", dice Capua, classe 1989, in un'intervista all'Adnkronos.
Il brano che l'artista romano, noto anche come conduttore radiofonico e per le sue partecipazioni a Castrocaro, all'Edicola Fiore e a 'L'anno che verrà', presenterà sul palco del Teatro Nuovo di Dogana "è una canzone che ho scritto recentemente ed è molto autobiografica - spiega Capua - un brano che parla di amore e di forza interiore, della lotta costante che ognuno affronta con i propri demoni interiori e che in qualche modo si vince quando si ha accanto una persona che ti ama, ti supporta e a volte ti sopporta". 'Sei sempre tu', che uscirà solo il giorno prima della finale, il 7 marzo, è prodotto dall'etichetta della Nazionale italiana cantanti ("voglio ringraziare la Nazionale di cui faccio parte perché ha prodotto già il mio album e continua a produrre le mie canzoni", dice) ed è dedicato idealmente alla compagna dell'artista: "Alla mia compagna Claudia - spiega - con cui convivo da tanti anni. Lei è la mia musa ispiratrice. Abbiamo una bellissima famiglia allargata composta anche dai nostri figli, avuti da precedenti relazioni. Mia figlia Giorgia, già molto appassionata di musica, e Gaia e Diego". Per Capua, 'Sei sempre tu' è "il primo singolo del nuovo album che spero di far uscire entro la fine di quest'anno", sottolinea. Mentre si dice contento di ritrovare a San Marino anche Pierdavide Carone (in gara con il brano 'Mi vuoi sposare?', ndr.) con il quale ha duettato in 'Ci credi ancora', uno dei brani dell'album 'Faccio il cantautore' uscito l'anno scorso.
Un album la cui title-track era dedicata proprio alla vita non sempre facile di chi vuol fare il cantautore: "Ho voluto scrivere quella canzone proprio per chi come me deve scontrarsi ogni giorno con gli alti e bassi di questo mestiere, che spesso non viene riconosciuto perché appunto è considerato poco sicuro e instabile, rispetto al mito del posto fisso che Checco Zalone ha raccontato tanto bene. Ma forse qualcosa sta cambiando se anche a Sanremo c'è stato un grande ritorno di cantautori, che hanno ottenuto risultati importanti. Questa edizione è stata un po' la rivincita dei cantautori", rimarca.
Quanto ai pronostici su San Marino, il commento di Capua è all'insegna del fair play: "Ci sono tanti artisti importanti che hanno molte più possibilità di me di vincere. Per me la vittoria è essere lì in finale a presentare la mia musica. Poi può succedere di tutto. Ma quello che voglio è dare il massimo e fare bene la mia performance", conclude. (di Antonella Nesi)
Roma, 28 feb. (Adnkronos) - "Penso che dire oggi 'o si fa l'Europa o si muore', sia assolutamente giusto e condivisibile. Lo diciamo da tempo. E a maggior ragione oggi di fronte all'aggressione di Trump e delle destre nazionaliste sostenute da autocrati come Putin e lo stesso presidente Usa". Nicola Fratoianni risponde così interpellato dall'Adnkronos sulla proposta di una piazza per l'Europa lanciata da Michele Serra su Repubblica.
"Ma perchè l'Europa si faccia, e si salvi, ha bisogno di capire quale è la sua prospettiva che per noi non può che essere quella di un'Europa di pace e non quella di scorporare dal patto di stabilità, le spese per il riarmo, ma che lo faccia semmai per la spesa sociale, per politiche industriali che vadano verso la transizione verde".
"Se dovesse continuare a ripetere gli errori che oggi la rendono così fragile, l'Europa non solo non si farà, ma rischia di non farcela. Occorre avere chiara questa prospettiva. Detto questo bene l'appello di Michele Serra ma non basta evocazioni, servono scelte politiche".