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Bocconcini di pollo fritto e hamburger fatti con le cellule staminali: la carne artificiale è già realtà a Singapore

A Singapore hanno iniziato a vendere bocconcini di pollo ottenuti da cellule staminali. Potrebbe essere la svolta per evitare lo sterminio di animali e ridurre fortemente l’impatto ambientale. Scopriamo però se è anche un’alternativa salutare

di Vita&Salute per il Fatto

Coltivare la carne in laboratorio, per ottenere bistecche, hamburger e spezzatini senza allevare animali e senza ucciderli. Un’utopia che sembra essere vicina alla realizzazione su larga scala. Lo scorso novembre le autorità sanitarie di Singapore hanno dato il via libera alla vendita di “nuggets” (bocconcini di carne impanati e fritti) ottenuti da carne di pollo “coltivata”.

In realtà, la scienza ronza attorno a questa questione a partire almeno dagli ultimi decenni del secolo scorso. Anche se qualche visionario c’era stato anche prima come, per esempio, il primo ministro inglese Winston Churchill che in un’intervista del 1931 aveva previsto che del pollo avremmo in futuro fatto crescere “in un ambiente adatto” solo i petti o le ali. Ritenendo uno spreco assurdo allevare un animale intero per poi scartarne, a fini alimentari, la maggior parte. Chissà se Churchill amava gli animali oppure se il suo auspicio era mosso esclusivamente da un forte senso pratico.

In ogni caso, oggi sembra che ci siamo. D’altra parte, c’era da aspettarselo che l’accumulo di conoscenze e l’affinamento dei processi produttivi messi in campo per trasformare le cellule staminali in qualcosa che sia utilizzabile per la salute dell’umanità (tessuto cutaneo, sangue, cellule immunitarie e probabilmente nel prossimo futuro anche altro) avessero anche uno sbocco commerciale. Dopo l’utilizzo delle cellule staminali in molti campi della medicina e della chirurgia siamo dunque arrivati alle bistecche, agli hamburger e ai dadini di pollo.

Come si produce – Si parte dalle cellule staminali. Si tratta di cellule primitive e non differenziate (non specializzate) che hanno la capacità di trasformarsi in diversi altri tipi di cellule del corpo. Queste cellule si possono prelevare dal cordone ombelicale, dal sangue, dal midollo osseo e dalla placenta. Ma anche dal tessuto grasso e dal muscolo. Queste cellule possono essere fatte riprodurre in laboratorio e con i filamenti che se ne ottengono, assemblandoli opportunamente (ne servono migliaia) è possibile creare qualcosa di simile alla carne, a un hamburger. Si tratta quindi di coltivare la carne, invece che allevare e di uccidere poi un animale. Naturalmente, nulla si crea dal nulla e quindi le cellule coltivate hanno bisogno di nutrimento. Nelle prime esperienze si utilizzava un fluido ricavato dal siero estratto dal feto bovino. Costosissimo e che comunque faceva rientrare dalla finestra il problema dell’uccisione degli animali (le mucche dovevano essere macellate durante la gravidanza). Oggi si utilizza un fluido composto da nutrienti vegetali. Tuttavia non devono mancare ormoni, vitamine e sostanze antifungine per evitare la contaminazione delle colture. Insomma, non è proprio una passeggiata.

I vantaggi ambientali ed etici – Devo dire che tutta questa operazione scientifico-commerciale non mi appassiona molto. In ogni caso, è innegabile che qualche aspetto positivo ci sia. Per esempio, dal punto di vista etico (si potrebbe smetterla con l’uccisione crudele di milioni di animali) e ambientale. L’allevamento degli animali è un’attività nello stesso tempo inquinante e inefficiente dal punto di vista economico. Non per caso gli allevamenti intensivi per la carne e il latte sono regolarmente e in vari modi sostenuti dai contributi regionali, statali, europei. I sussidi destinati alla zootecnia si mangiano il 18-20% dell’intero budget dell’Ue (greenpeace.it). Per produrre un chilo di carne rossa servono 15mila litri di acqua e 7 chili di mangime (cereali e legumi). Due terzi delle terre coltivate sono destinati a pascoli per il foraggio: la coltivazione della soia o dei cereali che finiscono nei mangimi. La deforestazione è la più evidente conseguenza negativa degli allevamenti intensivi. Inoltre, l’allevamento degli animali contribuisce per il 18% alle emissioni di gas serra, quasi alla pari dei trasporti.

Considerando che entro il 2050 è previsto che i consumi di carne crescano del 70% a causa dell’aumento della popolazione e della sempre maggiore richiesta da parte dei Paesi emergenti, è evidente che la produzione di carne mediante allevamenti intensivi appare già da ora del tutto insostenibile e irrealizzabile. In fondo, il pianeta sul quale viviamo e le sue risorse sono pur sempre limitati. Qualcuno ha fatto qualche stima (perché dati certi, al momento, non ce ne sono): la carne artificiale potrebbe ridurre del 90% il consumo di acqua e di terreno. Da questo punto di vista, dunque, pensare ad alimenti come la carne coltivata potrebbe essere un’opportunità.

Tuttavia… – Non siamo certo noi a voler bloccare le strade della scienza e della ricerca. E nemmeno dei tentativi di cui stiamo discutendo, cioè della possibilità di far crescere in laboratorio tessuti (anche umani) a partire da cellule staminali. Anche perché la medicina già da tempo studia e sperimenta materiali ottenuti in laboratorio da cellule staminali, le cui potenzialità per la salute umana rimangono molto importanti. D’altra parte, nel caso specifico della carne coltivata mi sia permesso esprimere qualche perplessità, anche considerando i notevoli investimenti in risorse, energia e tecnologie necessari e che non sono alla portata di tutti, almeno per il prossimo futuro. Non l’ho ancora sentito dire, ma sicuramente il tema verrà fuori: la carne coltivata è necessaria per ridurre la fame nel mondo e per rispondere in modo sostenibile alle crescenti richieste di proteine di elevata qualità nutrizionale che vengono da Paesi che innalzano il loro tenore di vita.

Ebbene, vorrei sommessamente fare osservare ancora una volta che il problema della fame e della denutrizione, in continua drammatica crescita, non dipende dalla mancanza di cibo: quello prodotto oggi è ampiamente sufficiente per il doppio della popolazione mondiale. Inoltre, ogni giorno solo in Italia vengono buttate più di 4.000 tonnellate di cibo, in Europa 50mila (dati eurispes.it). Si tratterebbe piuttosto di mettere mano alle enormi disuguaglianze, alle guerre, alle conseguenze dei cambiamenti climatici, ai regimi dittatoriali, alla colonizzazione mascherata, al nostro stile di vita troppo energivoro e inquinante. Naturalmente anche ottimizzando la distribuzione delle derrate alimentari. Per il cibo, le alternative alla carne coltivata ci sarebbero già e stanno nelle buone tradizioni gastronomiche del mondo. Soluzioni semplici ed economiche l’umanità le ha trovate da millenni: i piatti di cereali integrali e legumi che stanno nelle tradizioni gastronomiche di tutto il mondo sono il modo più efficiente per garantire il soddisfacimento dei fabbisogni nutrizionali di tutti. Non per niente la Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura) aveva proclamato il 2016 International Year of Pulses (anno internazionale dei legumi). Restiamo con i piedi per terra.

Che cosa accadrà dopo Singapore – A Singapore la carne coltivata è praticamente già nel piatto. Negli Stati Uniti la Food and Drug Administration (l’ente governativo che vigila su alimenti e farmaci) e il Dipartimento dell’agricoltura stano monitorando le diverse fasi del processo produttivo (tipo di cellule e di brodi di coltura scelti, le fonti delle cellule staminali, ecc.) e stanno anche fissando le regole per la futura commercializzazione, comprese le etichette. Per inciso, tra le aziende interessate ce ne sono anche un paio che commercializzano pesce. In Europa, per il momento, tutto tace. In ogni caso l’iter di approvazione non durerebbe meno di 18 mesi. Tuttavia, la scelta di Singapore potrebbe avere come effetto collaterale un’accelerazione sia degli investimenti in ricerca che della presentazione delle richieste di autorizzazione alla produzione e alla commercializzazione della carne artificiale. E anche del pesce, probabilmente.

Articolo di Paolo Pigozzi

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