La settimana scorsa, una notizia di risonanza mondiale ha scosso il Brasile, distogliendo l’opinione pubblica dalla quotidiana follia della pandemia e i media dalla routine macabra della conta dei morti ad essa legata: il giudice Edson Fachin del Supremo Tribunale Federale ha annullato quattro sentenze di condanna a carico di Lula da Silva, emesse dal Tribunale di Curitiba – che faceva riferimento alla task force di Sergio Moro – tra cui quella di 12 anni relativa al triplex di Guarujá (ridotti poi ad otto) per i quali Lula ha già scontato 580 giorni.
La motivazione addotta da Fachin è difetto di competenza, in quanto Curitiba non sarebbe stata la sede appropriata, poiché tale corte avrebbe dovuto giudicare solo crimini di corruzione legati al colosso petrolifero Petrobrás, non essendo provata a sufficienza la relazione tra Odebrecht – che secondo la Procura ha elargito bustarelle e “donazioni” a Lula e alla sua fondazione – e Petrobrás.
Una decisione ampiamente contestata dalla giurista Janaina Paschoal, che accusa il Supremo Tribunale Federale di inettitudine, dal momento che dopo 5 anni di processo e ricorsi della difesa solo ora sarebbe emerso questo vizio di forma. Tra l’altro, nel caso del triplex, nella motivazione della sentenza si citava proprio la Petrobrás come obiettivo degli appalti Odebrecht dietro sua intercessione.
Lula e Moro, due simboli controversi
Per effetto di questa decisione, a Lula è stato concesso di candidarsi nuovamente alle presidenziali del 2022, diritto a lui negato nel 2018 per via delle condanne, orchestrate secondo la vulgata comune da Jair Bolsonaro con la complicità di Moro, premiato poi dal novello presidente con il ministero della Giustizia. Parallelamente a ciò, lo stesso Moro è stato messo sotto inchiesta per suspeição, cioè parzialità e accanimento giudiziario, in seguito alle intercettazioni della rivista “The Intercept“ di Glenn Greenwald che ha esposto le pressioni dell’ex giudice sul procuratore Deltan Dallagnol per direzionare il processo a senso unico.
Pur se ottenuto con il lavoro di hacker, questo materiale è stato alfine ammesso nei faldoni giudiziari. Moro è attualmente nel mirino del Stf che ha già votato riguardo a eventuali sanzioni a suo carico. Per ora vige la parità, 2-2: Gilmar Mendes e Ricardo Lewandowski hanno votato a favore delle sanzioni, Carmen Lucia e Fachin contro, mentre il quinto giudice si è astenuto, prendendo tempo per decidere. E da qui emerge la prima contraddizione: Fachin, che ha aperto il vaso di Pandora, vota contro la decisione che dovrebbe punire proprio il presunto responsabile del processo falsato. Non solo: sempre Fachin trasmette la pratica del processo al Plenario Stf, dove ben 11 giudici si dovranno pronunciare se ratificare o meno il suo annullamento.
Ma l’insidia vera per Lula si nasconde proprio nelle pieghe giuridiche del caso, poiché non trattandosi di un’assoluzione il processo dovrà ricominciare da capo nel Tribunale di Brasilia. A essere annullata è solamente la sentenza, mentre tutti gli indizi che la Polizia Federale si procurò attraverso perquisizioni, intercettazioni e addirittura la rottura del sigillo della Procura che aveva secretato per scadenza dei termini la telefonata intercettata da Moro, nella quale Dilma Rousseff offriva una carica di ministro a Lula per consentirgli di rientrare nel Foro Privilegiado di Stf – che sottrae le cariche istituzionali alla giustizia ordinaria – sono state riammesse nell’impianto probatorio del nuovo processo.
Ma non è tutto: se una corte è dichiarata non competente, il procedimento viene annullato e il percorso di prescrizione si ferma, cosicché quei 5 anni non verranno conteggiati, e quindi anche se Lula ha più di 70 anni – e la legge brasiliana dimezza i termini di prescrizione a 10 anni nel suo caso – dovrà comunque ripartire da zero all’apertura del nuovo processo, che potrebbe iniziare tra altri 5 anni secondo Fachin. Ecco perché rischia seriamente di rimanere con il cerino in mano se dovesse subire una nuova condanna sulla soglia degli 80.
Tornando a Moro, ha probabilmente peccato di parzialità ed egocentrismo, e questa per un giudice del suo calibro è un’accusa pesantissima. Bolsonaro ne ha approfittato, e nominarlo ministro una volta preso il potere è stata una mossa furba per distoglierlo dalle indagini che sarebbero potute arrivare alla sua famiglia. Un po’ quello che fece Mussolini quando il prefetto Mori – che aveva ricevuto carta bianca dal Duce per stroncare la mafia – dopo aver messo a ferro e fuoco Ganci, quartier generale dei briganti, si dovette fermare una volta arrivato in alto, pur essendo riuscito a far condannare diversi membri del partito coinvolti con i boss mafiosi. Alla fine fu nominato senatore del Regno e tolto di mezzo.
Non credo però alla teoria del complotto: quando la strategia di Bolsonaro si è fatta più invadente, rimuovendo il capo della Polizia Federale Maurìcio Valeixo che aveva indagato sulle rachadinhas del primogenito Flávio – cioè le creste che costui faceva sugli stipendi dei dipendenti, intascando la differenza – Moro ha tenuto la schiena diritta e ha dato le dimissioni, e da quel momento è entrato nella lista nera del presidente.
In realtà, lo scopo recondito del giudice Fachin sarebbe quello di salvare – senza la presenza ingombrante di Moro – l’inchiesta Lava Jato, messa a serio rischio dall’incestuosa alleanza tra Bolsonaro e i partiti di centro che mira soprattutto a togliere le castagne del presidente dal fuoco, coinvolto com’è nelle malefatte del figlio, oltre al fatto che egli stesso è accusato di aver favorito tali traffici. Difatti, secondo alcuni media, avrebbe aiutato Flávio a comprare degli immobili riciclando il denaro illecito attraverso Fabrício Queiroz.
I membri di quei partiti dal canto loro hanno quasi tutti la coscienza sporca, a cominciare dall’ex presidente della Camera dei Deputati Rodrigo Maia che dall’agosto 2019 è sotto inchiesta per corruzione attiva e riciclaggio – accuse suffragate da solide prove presenti nel rapporto inviato dalla task force di Lava Jato al Tribunale Superiore di Giustizia. Con la grossa differenza che, mentre Bolsonaro e il figlio senatore sono ancora protetti dal Foro Privilegiado, Maia, non facendo più parte dell’Olimpo degli dei da febbraio 2021, può essere giudicato così come è successo a Lula. Anche il suo scudo parlamentare si è infranto, e lui torna ad essere una pedina chiave nello scacchiere della Procura brasiliana.
Foto di Flavio Bacchetta