In questi giorni ricorre il decimo anniversario dall’inizio del conflitto in Siria che ha causato circa 200.000 vittime solo tra i civili. Sebbene si sia ridotto lo scontro aperto, la sicurezza di milioni di civili e delle organizzazioni umanitarie che, come Oxfam, lavorano nel paese al fianco della popolazione continua ad essere minacciata. Al di là delle zone tornate sotto il controllo di Assad, in un paese ridotto a brandelli agiscono ancora una pluralità di attori: nel sud del Paese sono presenti ancora fazioni sostenute da paesi occidentali, tra Palmyra e Deir el-Zor quello che rimane dell’Isis, nel nord est i Kurdi, a nord una zona cuscinetto controllata dai turchi e i loro alleati, nel nord ovest, l’enclave di Idlib ancora in mano ai ribelli jihadisti.
Oltre l’80% viveva in povertà già prima della pandemia
Ancora oggi siamo di fronte a una guerra civile di cui non si intravede la fine, alla più grave emergenza profughi al mondo, a un paese da ricostruire dove, con l’impatto del Covid, milioni di famiglie lottano ogni giorno per sopravvivere. Basti pensare che già prima dello scoppio della pandemia oltre l’80% della popolazione viveva sotto la soglia di povertà. Per molti pianificare il futuro sembra quindi impossibile e c’è il rischio reale che le cose peggiorino per centinaia di migliaia di siriani, se non impariamo dagli errori del passato.
Le donne sono le prime ad essere colpite
Per il popolo siriano le speranze di un ritorno a una vita che possa anche solo avvicinarsi alla normalità pre-conflitto restano un miraggio. A pagarne il prezzo più alto sono le fasce più vulnerabili della popolazione, per prime milioni di donne che in un’infinità di casi hanno perso tutto. Oxfam, in occasione dei 10 anni dall’inizio del conflitto, ne ha intervistate alcune centinaia in Siria, Libano e Giordania per capire come sono cambiate le loro vite. Ebbene ciò che è emerso, in tutta la sua drammaticità, è che ancora oggi il loro obiettivo è esclusivamente la sopravvivenza. Ogni giorno è ancora una lotta per mettere il cibo in tavola, trovare acqua pulita e sentirsi al sicuro.
L’impatto della guerra, il collasso economico dovuto alla pandemia e la mancanza di prospettive di ripresa continuano a negare a gran parte della popolazione i diritti più basilari: dall’istruzione ad una assistenza sanitaria in un paese dove metà delle strutture sanitarie sono state distrutte. Dall’indagine è, inoltre, emerso con chiarezza che tanti, tra coloro che hanno trovato riparo nei paesi di confine, non torneranno in Siria finché non ci sarà una pace duratura, si sentiranno al sicuro dal conflitto e sentiranno di poter avere un futuro nel proprio paese. Un futuro che preveda uno sviluppo economico che possa consentire di vivere dignitosamente.
Un paese in trappola
Senza una pace stabile di fatto oggi la Siria resta intrappolata in un limbo, con i governi dei paesi donatori che non riescono a mettere in campo una risposta umanitaria capace di contribuire davvero alla ricostruzione del paese. Al contrario si deve fare i conti con la continua minaccia di tagli negli stanziamenti, come nel caso delle recenti dichiarazioni del Regno Unito, che vorrebbe tagliare di due terzi il proprio contributo. Nonostante la comunità internazionale abbia fatto progressi nella gestione di una crisi umanitaria che ha costretto 12 milioni di persone a lasciare le proprie case – di cui 5,6 milioni nei paesi vicini come Libano (892.000, sottostimati), Giordania (656.000) e Turchia (3,6 milioni) e oltre 6,2 milioni che sono ancora sfollati all’interno del Paese – non è riuscita a incidere radicalmente sulla vita del popolo siriano. Soprattutto considerando che ancora oggi oltre 11 milioni di persone devono la loro sopravvivenza agli aiuti umanitari.
Necessario un cambio di passo nella risposta alla crisi, a partire dalla conferenza di fine marzo
È evidente quindi che in una crisi tanto complessa serva un ulteriore cambio di impostazione, che porti il popolo siriano a non dover dipendere unicamente dagli aiuti internazionali di breve termine. La comunità internazionale non può più esimersi dall’affrontarne le cause profonde: disuguaglianza, mancanza di protezione sociale e accesso ai servizi, ingiustizia di genere, e non ultimo il fatto che le voci delle comunità siriane non vengono ascoltate. Proprio su questo punto è fondamentale che gli attori umanitari, così come i donatori, prestino maggiore attenzione, stringendo con le comunità siriane accordi a lungo termine che contribuiscano davvero alla fine della crisi.
Anno dopo anno, la devastazione è cresciuta colpendo tutte le infrastrutture e i gangli vitali dell’economia. Continuare ad offrire unicamente una risposta umanitaria di corto respiro significa non rendere il popolo siriano protagonista del proprio futuro. Con il parziale arresto delle ostilità abbiamo di fronte la possibilità di fare di più, ma se trascorreremo un altro decennio a distribuire solo fondi umanitari di emergenza non ci sarà alcun cambiamento.
In altre parole, gli interventi di emergenza devono essere pianificati insieme a progetti di sviluppo a lungo termine. Ciò richiede un aumento di finanziamenti flessibili pluriennali, in grado sia di ripristinare i servizi essenziali che la ricostruzione del tessuto socio-economico, offrendo alle famiglie siriane occasioni di lavoro e quindi la capacità di poter contare su un reddito. Su questo l’Italia è allineata ed è ora importante che, in vista della prossima conferenza sulla crisi a Bruxelles il 29 e 30 marzo, convinca anche gli altri grandi donatori internazionali, mantenendo o magari aumentando, l’impegno finanziario degli ultimi anni.
La campagna di Oxfam al fianco del popolo siriano
Per contribuire ad alleviare le sofferenze del popolo siriano, Oxfam ha appena lanciato la campagna “Dona acqua, salva una vita”, con l’obiettivo di rafforzare la propria risposta umanitaria in Siria e in altre gravi emergenze umanitarie, per garantire acqua e servizi igienico-sanitari alle comunità più vulnerabili. Fino al 28 marzo con un sms al 45584 si può contribuire a fare la differenza per tanti.