Caro Segretario Enrico Letta,

l’ho ascoltata nel corso della relazione all’Assemblea nazionale. E ho pensato fosse opportuno scrivere quel che penso, come militante di questo partito.

Da giorni, si discute del “chi gliel’ha fatto fare” di assumere la guida del Partito Democratico in un momento in cui l’impresa sembra titanica. Ragionandoci, credo che quando ci si chiede “chi me lo fa fare” la battaglia sia persa prima ancora di cominciare. Invece, lei ha risposto con un pizzico di sana follia, di speranza e di tanta passione: l’ho percepito dalle sue parole. Che portavano le cicatrici delle battaglie positive condotte e delle delusioni, date dal “problema di chiamarsi Enrico in questo partito” e “dalle tante maschere e pochi volti”.

In un passaggio, forse il più personale, lei, Segretario, ha detto: “A me ha colpito vedere il mio telefono impazzire. In sette giorni, credo di aver ricevuto più messaggi. Ma non mi sono stupito: la vita è fatta così. Quel telefonino si era riempito di messaggi e poi si è silenziato. Ma relativizzo tutto questo, la vita è fatta così. Non avrete un Segretario che arriva qui sulle ali dell’esaltazione di tutti quelli che oggi lo osannano. La vita è andare all’essenziale, fare le cose. Non c’è nulla di più sovversivo della verità, ed io ve l’ho detta”. È una sensazione che nel mio piccolo ho vissuto qualche anno fa (esattamente tre) con un telefono che squillava ininterrottamente per aver detto quello che pensavo in un’assemblea di questo partito, tra tante maschere e pochi volti.

Sono quei momenti in cui ritrovi te stesso, la tua coscienza e sai che nessuno ti coprirà. In tal caso, un insegnamento di Sandra Zampa, donna ulivista, che porto sempre con me e che rivolgerei anche a lei, Segretario, che sicuramente a differenza mia non ne avrà bisogno: “Combatti con la forza della tua coerenza, e stai lontano da quanti ti aduleranno nelle prossime ore solo per usarti, per farti dire ciò che non hai detto, e cioè che il Pd è da buttare”. O di cui vergognarsi. Ma da rifondare.

Il funzionamento della democrazia interna di questo partito sembra essere stato congegnato per soffocare da un lato la voce politica dei cittadini che vorrebbero parteciparvi e la sua base e, dall’altro, la voce di chi da Roma vorrebbe che questo partito fosse uno strumento per progettare democrazia, nel solco della tradizione ulivista. Nel mezzo c’è il sottobosco valido per tutte le stagioni, dedito a costruire filiere, che appare come un tappo nella vita interna. Perché se così è, la speranza e la partecipazione vengono canalizzate altrove, e il singolo che vorrebbe coltivare il proprio sguardo sul mondo per una partecipazione sincera alla politica direbbe “chi me lo fa fare”.

Questo va impedito, evitando il mancato rispetto sistematico delle regole interne. Lei, caro Segretario, ha parlato della forma partito: allora facciamo in modo che il rapporto Barca diventi efficace nell’organizzazione interna. Quel che risulta complicato è applicare la regola elementare di democrazia nel partito: iscriversi, prendere posizione sui temi, contare, confrontarsi e scontrarsi. Per arginare i “notabili” e dubbi personaggi all’interno di questa splendida comunità. Dal momento che se hai la fortuna di avere tuo padre che ha già una posizione di spicco nel partito, vieni incanalato; se hai la fortuna di entrare nelle “grazie” del sottobosco, hai vita facile nello stare dentro, specie al Sud. Altrimenti se hai la “sfortuna” di pensarla in modo diverso, dovresti chiederti “chi me lo fa fare”.

Le dico la verità, Segretario: ero convinto che dopo la cocente sconfitta del 2018 qualcosa potesse cambiare, invece “Piazza Grande” che Nicola Zingaretti aveva immaginato per rigenerare, man mano, è diventata sinonimo di conservazione. “Piazza Grande” è stata troppo timida: lo avvertii al Congresso nazionale, in cui la rigenerazione e il contributo al confronto mediante le proprie idee lasciarono il posto al peso dei veti e del “io valgo, perché ho le tessere” e alla forza di chi ha i doppi, tripli incarichi. Il famoso carrierismo che lei, Segretario, nel suo discorso ha affrontato. Perché se siamo giunti al punto in cui siamo, significa – per dirla con le parole di Gianni Cuperlo – che l’albero non è stato scosso perché i frutti cadessero a terra. Bensì lo si stava direttamente segando!

Tutto questo oltre ad incidere, come abbiamo constatato, sull’esistenza stessa del Pd, chiude il partito alle istanze plurime che potrebbero contaminarci e che provengono dal basso. Mi riferisco a quei movimenti di cittadini che generano discussione, proposte e azione politica e si organizzano, fuori da noi, per partecipare. E che affrontano i temi dell’ecologia, dell’ambiente, dell’acqua, dei beni comuni, del diritto alla salute, dell’istruzione. Le assicuro, avendo militato anche all’interno di movimenti sui beni comuni e promosso confronti insieme a tanti ragazzi del Sud, arrivando a coinvolgere il Forum DD, che accanto al nostro partito c’è un grande lavoro di proposta politica.

Queste spinte dal basso vogliono incidere, chiedendo rappresentanza e noi abbiamo il dovere di garantire. A questi ultimi soltanto una forza di matrice ulivista, sintesi di diverse culture, può prestare orecchio. Finora il mio e il suo partito ha preferito fare spallucce, perché forse tanti dirigenti non sono più in grado di ascoltare, preferendo costruire le condizioni per l’inserimento (senza meriti) nel listino per la prossime elezioni, conservando se stessi.

In tal modo, la democrazia viene svilita perché le modalità per formare decisioni si schiacciano sul momento del voto, che assorbe gli spazi per governare mediante la partecipazione, l’unica per giungere a giuste decisioni. Tra gli spunti che nel suo discorso ha ricordato, sull’argine al transfughismo parlamentare ad esempio, mi ha colpito il riferimento che lei ha fatto all’art. 49 della Costituzione, per spingere verso un funzionamento dei partiti con metodo democratico. Forse può rappresentare il tentativo per la discussione di una legge sui partiti. Se quest’ultimi non sono democratici, come potrebbe esserci democrazia anche all’esterno?

Occorre un nuovo Pd che svolga una funzione di formazione del consenso e che crei nuove consapevolezze con uno sguardo oltre l’emergenza economica e sanitaria dell’ultimo anno. Sono portato anche io, come lei, a sostenere che la rinascita della società parta da una nuova funzione dei partiti nell’attuale quadro democratico, al fine di non fare scomparire i luoghi della politica e cogliere la complessità della rappresentanza. Altrimenti avremmo frustrato la partecipazione e prestato il fianco ai populismi. Che potranno emergere nell’intermezzo del Governo Draghi, in cui la politica sembra essere stata commissariata. Sarà necessario scatenare le migliori energie perché il Partito Democratico, immaginato da Romano Prodi, non sia un fine in sé, ma un mezzo per garantire nel nuovo mondo del post-pandemia a ciascun cittadino – ecco quella che può essere la nostra “vocazione maggioritaria” – una vita più felice, nel solco della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Servirà un buon cacciavite per svitare il Pd, così da metterlo in buona salute, per illuminare “coloro che stanno nell’ombra e non si vedono”.

Ps. Segretario, se nei suoi confronti in queste righe ho usato un linguaggio formale è perché, credo, siamo un partito, una comunità. Se ci sono delle regole, anche di linguaggio e toni, abbiamo il dovere di applicarle. Inoltre, colgo l’occasione per augurare buon lavoro ai nuovi vicesegretari Irene Tinagli e l’amico Peppe Provenzano!

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