Ci sono programmi che fanno giri immensi, escono dagli annali della tv e poi ritornano. Uno di questi è Il grande gioco dell’oca, format ideato da Jocelyn Hattab, sparito dalla tv italiana mentre in giro per il mondo è rimasto un titolo forte, tanto che a breve Endemol Shine lo riproporrà in Sudamerica. «Più che l’usato sicuro, oggi i broadcast vogliono cose di sicuro successo», racconta a FQMagazine per Ilfattoquotidiano.it il regista, che da anni vive a Montecarlo e osserva con curioso distacco la tv italiana, dove ha condotto o diretto e scritto programmi cult come Discoring, Domenica In e Reazione a catena. Trent’anni di successi, delusioni e grandi incontri – come quello con l’amico Fabrizio Frizzi – con lo sguardo proiettato sul futuro e su un nuovo progetto per una piattaforma internazionale, che s’intreccia con la storia (da film) della sua famiglia.
Jocelyn, dunque Il grande gioco dell’oca torna in tv?
Si sono aperte le trattative ed Endemol Messico ha avuto il mandato per poterlo produrre. In Italia non va in onda da quasi trent’anni ma guardi che in diversi paesi al mondo, soprattutto nell’America dal Sud, ci sono state molte edizioni. Il pubblico ha continuato a richiederlo.
Perché un format come quello, piace ancora oggi?
Perché ha una matrice forte, è considerato uno dei pilastri del game in tv. Tanto che diversi nuovi format si sono ispirati al Grande gioco dell’oca ed io a mia volta mi sono ispirato ai giochi d’azione, creandolo nel 1985 per poi realizzandolo nel ‘93.
Dopo trent’anni, siamo ancora qui a parlarne. Allora non è un cliché che la tv di oggi punti sull’usato sicuro.
Più che l’usato sicuro, i broadcast vogliono cose di sicuro successo, perché i programmi nuovi sono difficili da far accettare. Da una parte c’è l’effetto nostalgia, dall’altra un cambiamento anagrafico importante su cui si può lavorare. Per questo nel format ci saranno delle inevitabili trasformazioni.
Ad esempio?
Un’ovvietà, la scenografia. All’epoca era come Disneyland, tutto di legno e pittura. Oggi con i led hai risolto metà del lavoro e hai un impatto scenico ancora più forte.
Perché la dimensione del gioco è stata così dominante nella sua carriera?
Perché il mio mentore è stato Jacques Antoine, quello che in Francia portò in radio programmi come Lascia o raddoppia e Rischiatutto. Ho nuotato nel suo stesso mare, una dimensione ludica, e l’ho coltivata. Mi piace inventare i meccanismi dei giochi, come le risposte multiple: in Italia sono stato tra i primi a introdurle e ancora oggi dominano nei quiz.
Sul fronte personaggi, fu lei a lanciare Alessia Marcuzzi, proprio a Il grande gioco dell’oca. Quando la notò?All’epoca faceva un programma con Nini Salerno, su Tmc. La conobbi all’Auditorium della Conciliazione, a Roma, per la Befana del poliziotto e dopo molte ore di conduzione le dissi: «Alessia, perché non mi aiuta?». Le feci presentare diversi numeri e capii subito che aveva stoffa: teneva la scena, era spigliata e ironica. Mi ricordai di lei qualche mese dopo, mentre componevo il cast per Rai2, ma non fu facile inserirla.
Perché?
Con Minoli fummo d’accordo nel prendere Paola Saluzzi, poi io proposi il nome di Alessia, cui consigliai un corso di dizione per levare l’accento romanesco. Lidia Sacerdote, il produttore, mi appoggiò ma ci scontrammo con i tanti che bussavano per imporre i più raccomandati. Alla fine la spuntammo e direi che sulla Marcuzzi ci avevo visto giusto.
Quante raccomandazioni ha respinto nella sua carriera?
(ride) Ho perso il conto. Ma sono sempre stato convinto che la meritocrazia sia un elemento fondamentale. Un giorno, non dirò chi, mi propose una ballerina per uno show, la ragazza arrivò ai casting e capimmo subito che non aveva mai studiato danza. «Scusi, ma lei balla?», le chiesi. «Sì, in discoteca», rispose. Ovviamente non la presi.
Di lei si dice che abbia un carattere dominante.
Non sono un signor sì. Sono un perfezionista che vuole fare le cose al meglio e invece quando t’impongono qualcuno, la stonatura è certa. Ho sempre detto no grazie e molti dei miei problemi lavorativi sono nati proprio da lì.
Ha più dato o più ricevuto dalla Rai?
«Ricordati che sei sempre tu che dai, non aspettarti nulla», mi ripeteva Gigi Sabani. La Rai mi ha dato tanto e le sono riconoscente, ma al tempo stesso sono amareggiato: ho formato un team forte, ho portato idee, creatività, innovazione tecnologica e ho fatto crescere diversi talenti. In cambio non ho avuto neanche un briciolo di riconoscenza. La politica, i rumori di corridoio e pettegolezzi infondati mi hanno rovinato tanto che per dieci anni sono rimasto fermo senza lavorare.
Stiamo parlando degli anni di Fabrizio Del Noce direttore di Rai1?
Del Noce mi mise fuori dalla porta, lo stesso accadde a Fabrizio Frizzi: entrambi siamo stati allontanati in quel periodo.
Perché Del Noce ce l’aveva con lei?
Gli riportarono delle bugie, parole che però lui ritenne vere. La cosa grave è che non fui nemmeno chiamato per un confronto. Fu una situazione abbastanza drammatica per me. Ma non mi sono mai perso d’animo.
Lei e Frizzi eravate amici?
Ci conoscemmo per caso alla fine degli anni ‘80, poi lo chiamai per condurre Il milionario ma Guardì lo aveva già scelto per Europa Europa, con cui fece il grande salto. Ci volevamo bene, per me non era Frizzi ma Fabrizio, un grande amico con cui ho condiviso momenti indimenticabili. Avevamo la stessa passione per motori: io lui e Max Gazzè abbiamo corso su tutti i circuiti d’Italia e in manifestazioni importanti come le 24 ore di Adria.
Chi era il migliore?
Gazzè, senza dubbio. Io ero il più scarso.
In un’istantanea, un ricordo di Frizzi.
La sua risata avvolgente. Mi manca molto.
Tornando a lei: cercando il suo nome su Google, una delle chiavi di ricerca più utilizzate è Giochi senza frontiere. Perché?
Perché i giornalisti hanno associato il mio nome a quel programma, qualcuno ha scritto che l’ho condotto e ha innescato la fake news (dice ridendo).
La verità qual è?
Che sono stato assistente di produzione nella prima edizione, poi produttore generale di tutte le nazioni nell’ultima edizione. Il mio nome era nei titoli di coda ma nulla di più. Anche la gente me lo chiede spesso, sa, forse perché lo associa ai miei programmi estivi: l’unico punto in comune era Armando Nobili, lo stesso scenografo, e l’accento francese dell’arbitro che aveva una voce simile alla mia.
Lei ha venduto diversi format all’estero: uno dei più famosi è Il milionario.
Il milionario l’ho creato quando lavoravo per Tele-Union. Chiudevamo un concorrente nella suite di un hotel, di sera, e quello doveva chiamare i negozianti della città per convincerli a farsi recapitare i premi. Fu un successo clamoroso, poi cambiò direzione di Rai2 e non fu più fatto. Fece boom anche Vita da cani e pure quello lo vendetti, anticipando i tempi: già negli anni ’90 dicevo che le reti sarebbero state sempre più broadcaster e sempre meno produttori. Oggi i direttori non creano, si limitano a scegliere i format.
Ed è un bene o male?
Mancano i poeti, quei direttori che scelgono i programmi avendo in mente una visione. E questo è triste. Sulla generalista nessuno vuole rischiare investendo in nuovi progetti. Solo i conduttori super star oggi possono scegliere che vestiti cucirsi addosso.
Anche i registi star non ci sono più.
Oggi sono pilotati dagli autori. Cosa che Pingitore, Guardì ed io stesso non avremmo mai tollerato. Tra i più bravi, oggi, c’è Roberto Cenci.
Nel suo curriculum c’è un azzardo: cambiò il nome di Domenica In.
Con Carlo Conti ci siamo guardati e ci siamo detti: «Facciamo qualcosa di folle». Dopo il successo di In bocca al lupo, c’inventammo due pupazzi che giocavano tra di loro e li ribattezzammo Dom & Nika. In studio c’erano trapeziste, statue viventi ed elementi circensi. Spezzammo l’estetica classica perché il pubblico guardando il programma dicesse: «Finalmente un’idea nuova».
Prima fece Domenica In con la Parietti e Toto Cutugno, passata alla storia come l’edizione più litigiosa di sempre.
(ride) Ho passato una stagione a spegnere fuochi: io mi occupavo dei giochi, loro pensavano a litigare. Camminavo in equilibrio pericoloso, essendo amico di entrambi. Però lì conobbi bene le maestranze del centro di produzione di Napoli, che ritrovai poi per Reazione a catena: è un posto che mi porto nel cuore.
Della tv italiana di oggi cosa le piace?
Altra domanda?
Mettiamola così: cosa guarda?
I telegiornali e poco altro. Cambio canale a velocità sostenuta. In generale, mi abbuffo di serie e guardo molta tv francese, dove c’è una cura e un’attenzione per i dettagli: l’impressione è che in Francia investano ancora molto per le produzioni o forse la stessa cifra la spendono meglio che in Italia.
I conduttori italiani cui è più legato?
Carlo Conti e Tiberio Timperi. Due grandi professionisti.
Oggi lei ha 75 anni e da tempo vive a Montecarlo. Che cosa fa?
Coltivo la passione per la musica, la letteratura e scrivo nuovi progetti per la tv.
Lei e sua moglie, la giornalista Alessandra Chianese, frequentate gli altri italiani famosi che vivono nel Principato?
Ogni tanto Chicco Agnese, che è stato dirigente Rai e direttore dei palinsesti, ma soprattutto Umberto Tozzi e la sua famiglia: di solito organizziamo delle belle serate ma purtroppo è un anno che non ci vediamo a causa del Covid. Qualche settimana fa per altro sono stato vaccinato e spero per tutti che la normalità torni presto.
Intanto a cosa sta lavorando?
A un progetto per il quale io e mia moglie stiamo trattando con emittenti internazionali. Sono due stagioni di otto puntate che s’intreccia con le storie di altrettanti paesi parlando anche d’integrazione, disabilità, questione di genere.
L’integrazione è un tema che lei conosce bene. Ne parla poco, ma la storia della sua famiglia sembra il plot di un film.
Papà visse per un anno, tra il ’42 e il ’43, nascosto nell’intercapedine tra due palazzi: lui e un gruppo di suoi amici erano tra i comunisti ricercati dagli italiani e dai tedeschi che avevano invaso la Tunisia. Uscì da lì solo quando ci fu indipendenza. Io nacqui nel ’45.
Perché vi trasferiste in Francia?
Lui voleva darci un futuro migliore attraverso la possibilità di studiare. Ma non fu facile, perché eravamo una famiglia di ebrei. Io da bambino ho subito sulla mia pelle l’antisemitismo, a scuola, e ne porto ancora oggi le cicatrici. «Quando torniamo a casa?», ripetevo disperato ai miei genitori. Mi sentivo perso in un paese che non era il mio. Mio padre ci obbligava a non rispondere agli insulti e ci ripeteva: «Passate tra il manifesto e il muro».
Poi si è sentito accolto dalla Francia?
Più che accolto, abbracciato. Ci ha dato tanto, per questo faccio fatica a rievocare queste pagine nere.
Il gene creativo da chi l’ha ereditato?
Da mio padre. Ero uno scultore ma per mantenersi faceva il marmista e si occupava del restauro dei più importanti monumenti francesi. Un giorno arrivò a casa da Versailles e ci disse: «Chiamatemi re. Oggi pomeriggio ho fatto una pennichella nel letto di Luigi XIV». Mamma invece era una farmacista ma arrivata in Francia trovò lavoro come donna di servizio: lo fece per tutta la vita e al suo funerale fu omaggiata della presenza delle tante persone per le quali aveva lavorato.
I suoi genitori hanno vissuto i suoi successi?
Fino a un certo punto sì, ma sempre con distacco ammirato.
Cosa le direbbero oggi?
Sarebbero orgogliosi di ciò che ho costruito e soprattutto del rapporto unico che ho con mio fratello e con mia sorella: se il nostro legame è così solido, è grazie a ciò che loro ci hanno trasmesso.