di Claudia Di Maio
Non è una novità sentir parlare delle malefatte di Amazon, ma è anche vero che in molti casi si respira una demonizzazione del colosso del web. Forse il mio pensiero non rientrerà tra quello dei più e capisco – da un certo punto di vista – che l’Italia sia spaccata in due sull’argomento, però bisogna riconoscerne un certo accanimento che in casi ben più gravi muta in tutt’altro.
Conosco – direttamente e indirettamente – qualche persona che ci lavora ed alcuni di questi addirittura considerano un sogno coronato far parte dello staff di Amazon. Ovviamente comprendo che molto può dipendere dall’inquadramento, pertanto ho deciso di ragionare sulle recriminazioni degli impiegati riportate da tv e stampa negli ultimi anni.
Sono stati denunciati turni massacranti con poca o nessuna rotazione delle mansioni, condizioni lavorative alienanti, salari bassi, buoni pasto insufficienti, antagonismo tra contrattualizzati a tempo indeterminato e non e scarso rispetto delle normative anti Covid… anche se troppo spesso viene omesso che molto riguarda le condizioni di fornitori terzi di Amazon.
Non contesto le segnalazioni degli impiegati, ma ciò che mi chiedo è se quanto riportato violi le norme di legge sul lavoro e se sia giusto abusare del nome del colosso nei titoli di giornale quando una grossa fetta di manifestanti appartiene ad altre aziende che forniscono servizi ad esso.
Le segnalazioni sono tutte condizioni riscontrabili in qualsiasi fabbrica o call center, in cui i lavoratori passano ore a fare gli stessi movimenti, alienati tra pannelli a parlare continuamente al telefono o a competere ferocemente a causa di contratti a provvigione. Ed il salario è quello stabilito dal Ccnl.
Avrei potuto elencare tanti altri esempi, siamo pieni di lavori frenetici e massacranti in Italia, ma ho voluto concentrarmi sulle due attività sopracitate perché spesso soggette ad ammortizzatori sociali di ogni genere, sovvenzioni da capogiro, vie preferenziali e amnistie ad oltranza pur di conservare posti di lavoro che troppo spesso finiscono in malora o all’estero.
E mentre tra giornali, servizi televisivi e social percepisco solidarietà nei confronti dei lavoratori e indignazione nei confronti dell’azienda per “la questione Amazon”, mi imbatto in filosofie inquietanti su questioni allarmanti come l’Ilva, per la quale l’informazione ci ha tempestato col “dilemma tra salvare l’economia o la salute”. Un approccio in netto contrasto con quello adottato con il colosso mondiale dell’e-commerce. Che ogni anno in Italia assume centinaia o migliaia di persone (2.600 solo nel 2020), che fornisce una più ampia visibilità ad oltre 14.000 piccole e medie imprese e 2.500 artigiani, che ha permesso un export da più di 500.000.000 di euro alle Pmi, che investe nel futuro ed offre – oltre ad un’Assistenza Clienti impareggiabile – servizi sempre più all’avanguardia (come gli Amazon Locker, consegne con mezzi elettrici, ecc).
Tutte realtà che hanno messo in soggezione i “big” ed evidenziato la carenza di competenze e servizi – pubblici e privati – del nostro Paese (uno degli esempi più lampanti è il salto di qualità ed efficienza di Poste Italiane a seguito dell’accordo con Amazon nel 2018).
Come ho già precisato, la mia non vuole essere una critica nei confronti di chi sciopererà il 22 marzo, ma un invito all’onestà intellettuale per i manovratori che agiscono sulla base di interessi che vanno al di là del benessere dei lavoratori.