Esattamente 10 anni fa, il 19 marzo 2011, le bombe sganciate dai caccia francesi e i missili da crociera Tomahawk partiti dalle navi militari americane e britanniche illuminavano il cielo sopra Bengasi per andare a colpire gli avamposti dell’esercito del Rais Mu’ammar Gheddafi. Un mese dopo l’inizio delle rivolte anti-governative in Libia, iniziava così l’intervento militare internazionale che porterà alla caduta del regime gheddafiano e a una stagione di instabilità che permane ancora oggi, con un Paese dilaniato dalla guerriglia interna, dalla frammentazione, dalla sete di potere e nel quale si inserisce un’ulteriore grave crisi umanitaria, quella dei migranti. Oggi, a dieci anni di distanza, la luce sui cieli della Libia è però quella della speranza: pochi giorni fa ha giurato il nuovo Governo di unità nazionale guidato dal premier Abdul Hamid Dbeibeh che, nelle intenzioni delle parti in conflitto, dovrà portare i libici alle elezioni di dicembre nelle quali verrà eletta democraticamente la nuova guida del Paese. “Per una volta quando si parla di Libia si può essere ottimisti – spiega a Ilfattoquotidiano.it Matteo Colombo, Visiting Fellow dell’Ecfr e Associate Research Fellow dell’Ispi – Ma i dubbi rimangono, soprattutto riguardo alla possibilità di permettere il voto in tutte le aree del Paese in condizioni accettabili di sicurezza”.

Sono i mesi caldi delle cosiddette Primavere Arabe e anche in Libia, come nei vicini Egitto, Algeria e Tunisia, le persone scendono in piazza sulla spinta emotiva delle rivoluzioni. La repressione del regime sarà sanguinosa, con le forze di sicurezza che, prima a Bengasi e poi in altre località, iniziano a sparare sulla folla. È per fermare questa repressione violenta che i Paesi occidentali, Francia e Gran Bretagna in testa, giustificheranno l’intervento armato nel Paese. “Gli interessi in gioco, come sappiamo, erano ben altri – continua Colombo – Parigi, storicamente forte nell’est, vide in quelle sommosse la possibilità di espandere la propria influenza in tutto il Paese. Gheddafi intratteneva ottimi rapporti con l’Italia e destituirlo poteva essere un modo per ricoprire un ruolo finalmente egemone. La storia ci dice, però, che quei piani sono falliti, la Libia è stata una sconfitta per tutti quanti, anche per un’Europa che, anche in quell’occasione, si è divisa in nome degli interessi nazionali”.

Il 20 ottobre, l’obiettivo dei rivoltosi venne raggiunto. Il corpo martoriato e ricoperto di sangue del Rais venne immortalato mentre gruppi di miliziani lo trascinavano sui loro mezzi prima di giustiziarlo con un colpo di pistola alla tempia e portarlo come un trofeo a Misurata. Ma alla caduta del dittatore non seguì un rinnovamento democratico nel Paese: i gruppi di potere locali e le tribù armate, fino a quel momento controllate grazie alla forza militare del potere centrale e a una attenta, anche se molto complicata, redistribuzione dei proventi del petrolio, iniziarono una guerra tra bande che permane ancora oggi. Una situazione incontrollabile che ha reso la Libia uno dei Paesi più instabili del pianeta, coinvolta in un conflitto senza tregua dal 2011, dove le violazioni dei diritti umani sono endemiche e all’ordine del giorno, dove organizzazioni criminali e paramilitari si sono ritagliate i propri business illegali come vere e proprie mafie, con il Paese che è diventato anche l’autostrada delle migrazioni verso l’Europa da tutta l’Africa centrale.

Nella seconda metà del conflitto si sono delineate due fazioni principali: quella di Tripoli, formata dal Governo di accordo nazionale guidato da Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite e sostenuto militarmente dalla Turchia, e quella di Bengasi con a capo il generale Khalifa Haftar che godeva del supporto, tra gli altri, della Russia. A queste si aggiungono le milizie di Misurata, quelle che più di tutte nel 2011 hanno combattuto per la caduta del regime. Resta il fatto, però, che questi gruppi di potere hanno a loro volta dovuto gestire un’infinità di fazioni armate: stime approssimative parlano infatti di almeno 140 tribù in tutto il Paese. Una situazione che ha reso breve la vita di qualsiasi tentativo di accordo nazionale negli ultimi dieci anni.

Oggi, però, qualcosa sembra essere cambiato: “L’impressione – spiega Colombo – è che sia a est che a ovest ci si sia resi conto della necessità di riconoscere questo nuovo governo, con il primo ministro Dbeibeh popolare nell’ovest e a Misurata e il presidente del Consiglio Presidenziale, Mohammed Menfi, di Tobruk e quindi più legato all’area sotto il controllo di Haftar. Questo perché entrambe le parti hanno capito, anche con l’ultima tentata e fallita conquista di Tripoli da parte dell’uomo forte di Bengasi, che nessuno è in grado di ottenere una vittoria totale. Il sostegno a questo governo di transizione credo possa esserci, il problema è capire se il Paese sia in grado di sostenere nuove elezioni a dicembre, soprattutto dal punto di vista della sicurezza”.

E questo potrebbe creare non pochi problemi al leader che verrà eletto. Tra i candidati, i nomi più forti sono quelli dell’ex ministro dell’Interno del Gna, il misuratino Fathi Bashagha, e il presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh, ma a fare la differenza sarà la capacità di gestire, di nuovo, la frammentata realtà libica: “I vari candidati incontreranno i potentati locali e stabiliranno le condizioni per ottenere il loro sostegno – spiega Colombo – Ma chi ci dice che sarà possibile votare liberamente in tutte le zone del Paese? E se questo non dovesse accadere è possibile che gli sconfitti non riconoscano la legittimità delle elezioni, scatenando un nuovo conflitto interno. Senza un esercito centrale in grado di garantire l’ordine e la sicurezza, chiunque prenda il potere dovrà essere bravo a fare ciò a cui anche Gheddafi era costretto, pur godendo del pieno controllo militare, ossia un’attenta redistribuzione delle ricchezze provenienti dalla vendita del petrolio. Chi ci riuscirà potrà contare sul supporto della maggior parte del Paese”.

Una nuova stabilità che farebbe felici anche gli attori internazionali coinvolti. Se la Russia, che solo formalmente non è sul terreno, è destinata a un graduale ritiro, magari ottenendo concessioni dalla Turchia sul dossier siriano, Ankara potrebbe invece rimanere nel Paese con lo scopo di aumentare la propria influenza nel Mediterraneo, magari anche costruendo delle basi militari. E l’Europa, che a causa della guerra ha pagato anche da un punto di vista di flussi migratori, potrebbe avere un nuovo interlocutore riconosciuto da tutti con cui dialogare: “Parlare con un governo che controlla l’intero Paese sarebbe un grande vantaggio anche da questo punto di vista – conclude Colombo – Ma, appunto, prima di tutto è importante garantire di nuovo la stabilità della Libia“.

Twitter: @GianniRosini

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