A volte ritornano. Anzi, insistono.

È dal 2010 che non si leggevano le argomentazioni di Roberto Perotti – nell’occasione affiancato da Tito Boeri – a favore della concentrazione dei fondi di ricerca sulle università migliori. La tesi dei due autori, esposta in un articolo del 17 marzo scorso su “Repubblica” è molto semplice: “premiare chi fa ricerca migliore”. E chi potrebbe anche solo arguire “ma nooo!”? Magari alzando il ciglio con sussieguo professorale…? Nessuno, ovviamente. Chi fa ricerca migliore, va premiato.

Però il titolo del loro articolo estende la categoria logica del “migliore”: “Basta contributi a pioggia. I fondi vanno concentrati sulle università migliori”. E qui, come si dice in Toscana, casca l’asino. Eh sì, perché non c’è bisogno di ricorrere alla logica formale per capire che premiare (con modalità già oggi esistenti) chi fa ricerca migliore è cosa diversa dal concentrare i fondi sulle migliori università. Perotti e Boeri, due colleghi che fanno ricerca e quindi sanno di cosa parlano, sono sicuramente coscienti del fatto che un conto è premiare un collega per un ottimo risultato della ricerca (che so, con quelle medaglie al valore che a noi piacciono ancor più che al generale Figliuolo: un Nobel, un’attestazione pubblica di qualità, un brevetto particolarmente fortunato, un libro che viene continuamente citato dei colleghi come punto di riferimento irrinunciabile e magari vende pure). Un altro conto è premiare un ateneo nel suo complesso.

Il tranello semantico è evidente: il principio del premiare chi fa ricerca migliore (il singolo) viene esteso all’istituzione della quale questo “migliore” fa parte. Ma chi decide quale è l’università migliore? La qualità di alcuni docenti che ne aumentano il lustro? (compreso il richiamo di vecchie glorie politiche assunte come opinion leader piuttosto che come docenti: a Georgetown c’è chi ricorda le soporifere lezioni di una stanca Madeleine Albright). Oppure lo decide il “consumatore”? Le famiglie che partono dal presupposto che più alta è la retta, migliore è la qualità? Il richiamo dei grandi nomi assunti con contratti milionari per dire “ce l’ho io”? (vengono in mente due o tre nomi taciuti per carità di patria). Oppure lo decidono i ranking internazionali, forse una delle più elaborate truffe intellettuali esistenti, allestiti da agenzie che si occupano solo di rating e campano su quello?

Insomma, la logica non è dalla parte dell’argomentazione di fondo. Ma la logica non è neppure dalla parte delle argomentazioni di approfondimento dei due autori. Questi, infatti, parlano a un certo punto dell’importanza delle cosiddette “economie di agglomerazione, in cui la concentrazione in una sede universitaria dei migliori ricercatori può portare a fare grandi passi avanti”. Ciò è sicuramente vero per alcune discipline, quelle che privilegiano il lavoro in team e la ricerca applicata; ma non è affatto vero per altre discipline che invece vivono sì del contatto personale, ma non dell’agglomerazione: la conoscenza della storia internazionale non si sarebbe mossa di un millimetro se tutti fossero rimasti a Bergamo o a Brescia a fare “agglomerazione” con gli storici locali; è cresciuta come disciplina sia dal punto di vista storico sia da quello politologico con la disseminazione culturale, con la contaminazione, con il movimento tra sedi diverse, con la creazione di scuole di pensiero e di ricerca in posti lontani da dove quei ricercatori e studiosi si erano formati. È una grossa sciocchezza, figlia di un fordismo intellettuale molto blasé dire che la ricerca deve essere comunque concentrata per dare sviluppi e per dare risultati.

Una sciocchezza contraddetta dalla storia stessa della conoscenza: i clerici vagantes non si erano “agglomerati” in sedi di eccellenza, vagavano, si muovevano, e in ogni sede dove si portavano fondavano una scuola, chiedevano finanziamenti ai signori locali, sviluppavano la circolarità delle idee per creare strutture persistenti. Oggi non siamo più ai tempi dei clerici vagantes, lo concedo, ma è sicuramente assurdo continuare a pensare che la concentrazione su poche sedi di eccellenza ipernutrite e coccolate, e il progressivo abbandono di altre sedi, non eccellenti e non strabilianti, sia la ricetta per favorire il miglioramento del sistema universitario e della ricerca. Chi afferma questo o non ha nessun senso della sfida di trasformare realtà di didattica e ricerca meno attive in qualcosa di migliore, oppure propone modelli lontani non solo dalla ragionevolezza, ma dalla storia stessa della cultura e della ricerca scientifica.

Una parte dell’articolo dei due autori si perde poi in particolari tecnici sulle quote premiali, sull’indice di concentrazione dei finanziamenti, la valutazione della qualità della ricerca, eccetera. Si porta come esempio il caso britannico che concentra i finanziamenti sulle migliori università, per dire che ovunque, per ogni materia, deve essere fatto così. Dalla glottologia alle STEM.

Allora invitiamo tutti a fare un piccolo esperimento, crudele invero, ma metaforico: prendiamo due cuccioli di cane e alleviamoli in maniera esattamente opposta: a uno daremo ottimo cibo, tante coccole, gli faremo fare molte passeggiate, addestramento personalizzato, lo porteremo spesso dal toelettatore per eliminare pulci e zecche, lo tratteremo come ognuno di noi vorrebbe trattare un ottimo cane al quale vogliamo molto bene; all’altro, invece, daremo cibo appena sufficiente, qualche bastonata, mai una coccola, passeggiate solo per fare i bisogni, e lo terremo sempre con la museruola, così che si debba sentire sempre umiliato e riluttante ad abbaiare.

Ovviamente tutti vorremmo il primo cane, perché sarebbe quello che ci darebbe più soddisfazione; e allora il punto è proprio questo: perché invece di proporre ciclicamente le stesse ricette restrittive e “meritocratiche” fondate su un concetto di merito introiettato in maniera esclusiva dagli autori, senza alcuna fantasia in un mondo di pochi cani splendidi e tanti bastardacci abbandonati a se stessi, non ci si impegna per aumentare complessivamente la mobilità temporanea dei docenti, la detassazione dei finanziamenti privati alla ricerca, l’aumento dei teaching grants (borse) a livello individuale e collettivo, la ricerca di sinergie tra pubblico e privato che non siano fondate sull’esaltazione del privato a scapito del pubblico, una modalità aperta e collettiva – la collettività non è un disvalore – di nutrimento di tutta la comunità scientifica nazionale, parte di un gruppo internazionale ben più ampio? In altre parole, meno pianificazioni astratte e “agglomerati” e più buon senso. Forse non tutti “i cani“ così allevati vinceranno concorsi di agilità e premi di bellezza, ma l’accalappiacani potrà starsene a casa tranquillo.

La ricetta di Boeri e Perotti ci riporta alla memoria quell’affermazione, “affamare la bestia“, così in voga negli anni Ottanta, che professava che una riduzione della spesa pubblica avrebbe portato alla riduzione delle tasse e a maggiore prosperità per tutti: un modello competitivo e differenziante che ha provato, dall’austerity in poi, tutti i costi sociali che porta con sé. Il sistema dell’istruzione e della ricerca non merita queste ricette ordoliberiste, peraltro già attuate in passato: forse Boeri e Perotti erano distratti quando si portava l’attacco a tutta la struttura universitaria, nel corso del 2008-2011, ad opera dei ministri Gelmini e Tremonti, con pesanti tagli al finanziamento del sistema universitario e il depauperamento della scuola pubblica; ah no, non erano distratti, erano ben attenti e già all’epoca dicevano le stesse cose che ora ripetono come un mantra continuo, martellante, anche in vista dei soldi europei che, si sa, non puzzano certo più di quelli nazionali.

Perché non impegnano le loro forze nel compito più difficile, ben più difficile di proclamare ricette selettive di una specie che non solo non è perfetta, ma neppure identica in tutte le sue componenti? Tale compito potrebbe essere quella di scrivere un immaginario articolo, ispirato, dal titolo “i fondi vanno concentrati su istruzione e ricerca”. Punto.

Questa sarebbe la grande novità, anche meno difficile da mettere in pratica, che i tanti Perotti e i tanti Boeri non osano proporre.

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