La crescente esportazione di armamenti verso i teatri di guerra rappresenta una delle peggiori espressioni della schizofrenia che anima il sistema internazionale. Ogni giorno compaiono sulla stampa notizie che illustrano il ruolo particolarmente deleterio dell’Italia e della sua industria a tale proposito. Di recente Il Fatto Quotidiano ha reso noto come addirittura la cessione all’Egitto del generale al-Sisi di 10 fregate sia costata al contribuente italiano almeno 556 milioni di euro, dato che due delle dieci navi prodotte al costo, finanziato dal ministero della Difesa, di 5.992.330.000 euro sono state cedute all’Egitto per soli 990 milioni.
Una perdita di entità non trascurabile in un momento nel quale le casse pubbliche dovrebbero far fronte alle spese prioritarie ed urgenti in termini di lotta alla pandemia e di contrasto della crisi economica. Una perdita secca ingiustificabile colla quale per di più si alimenta la guerra che il governo egiziano conduce contro la propria popolazione e si consolida un regime basato sulla tortura, l’incarcerazione e la sparizione sistematica degli oppositori, come dimostrano le vicende di Giulio Regeni e di Patrick Zaki.
In tal modo il nostro Paese, per soddisfare gli interessi del regime egiziano e di determinati suoi sodali italiani, alimenta il focolaio della guerra nel Mediterraneo e nei suoi paraggi. È infatti noto come al-Sisi costituisca il principale alleato del regime saudita che sta conducendo da anni una guerra genocida nello Yemen, sembra anch’esso avvalendosi di armamenti anche italiani come risulta dalla denuncia relativa a un bombardamento avvenuto a Deir-al-Hajari, nello Yemen nordoccidentale su cui sta indagando la magistratura. Risulterebbe che le truppe saudite si avvalgano di bombe della serie MK 80 (prodotte in particolare da Rwm Italia S.p.A.) e di jet Eurofighter Typhoon e Tornado, anch’essi di produzione italiana.
Per non fare torto a nessuno, l’industria degli armamenti italiani equipaggia peraltro anche uno dei rivali dell’asse Egitto-Arabia Saudita nell’area mediorientale, e cioè il regime, anch’esso in forte crisi, del turco Erdogan, cui sono andate, negli ultimi tre anni, armi per oltre 122 milioni di euro, che l’esercito turco utilizzerà nell’aggressione al popolo curdo e al territorio siriano, e in particolare alla regione autonoma della Rojava e negli altri teatri di guerra in cui è impegnato, come la Libia e da ultimo il Nagorno-Karabakh conteso fra Armenia e Azerbaijan. Figure indimenticabili come Pietro Chiocca, lo spregiudicato mercante di armi immortalato dal grande Alberto Sordi nel suo Finché c’è guerra c’è speranza impallidiscono al confronto coi mercanti di morte attuali nostrani, sciagurati piromani che si aggirano colle torce accese in mezzo a polveriere ricolme.
Non si trovano i soldi per attuare la riconversione ambientale dell’Ilva di Taranto o far ripartire l’Alitalia, né per ristorare i piccoli imprenditori colpiti dalla crisi, ma in compenso lo scellerato sistema militare-industriale italiano, privo di strategia e guidato solo dall’interesse immediato di alcuni suoi componenti appartenenti al mondo politico o imprenditoriale, sperpera soldi e mezzi per alimentare la spirale senza fine della guerra, che porta devastazioni ambientali, miseria crescente alle popolazioni e nuovi flussi di rifugiati. Un circolo vizioso di fronte al quale il nostro governo, che sia dei migliori o dei peggiori, rivela tutta la sua imperdonabile inettitudine.
Anche questo è un prezzo da pagare al “mercato”. Non priva di una sua perversa razionalità, da questo punto di vista, la recente nomina di Marco Minniti alla presidenza della nuova Fondazione Med-Or creata dalla società produttrice di armamenti Leonardo: dopo essersi occupato di rispedire i profughi nei campi di concentramento libici, il piddino riciclato si occuperà ora di trasferire tecnologie “tradizionali ed innovative” ai Paesi mediorientali da cui hanno origine buona parte dei profughi stessi, vittima delle guerre combattute con armamenti prodotti, fra gli altri, anche da Leonardo. Che siano queste le tecnologie di cui si parla? Speriamo di no, ma temo di sì.
In compenso accade pure che la Digos indaghi sul Collettivo autonomo dei portuali di Genova, accusati dalla Procura di Genova di associazione a delinquere, resistenza e attentato alla sicurezza pubblica dei trasporti, per aver organizzato presidi contro l’esportazione degli armamenti in Arabia Saudita e in Siria.
Come ai tempi della Resistenza antifascista la difesa del bene comune poggia in ultima analisi solo sulla classe operaia, che va sostenuta perché è l’unica ad avere chiara la visione dei veri interessi generali del nostro e degli altri popoli. Non facciamo mancare loro la nostra solidarietà.