Molti considerano la prescrizione pre-riforma Bonafede (ovvero quella che, interrotta, ricomincia a decorrere anche dalla sentenza di primo grado) l’unica “cura” all’eccessiva durata del processo penale in Italia: eliminandola, come è avvenuto sospendendone il decorso dalla sentenza di primo grado in poi, si lascerebbe l’imputato (ormai condannato o assoluto in primo grado) in balia di processi potenzialmente infiniti.
Una cura però deve avere il potere di guarire il paziente, altrimenti non è una cura. Ecco, la prescrizione “vecchia maniera” non accelera il processo. Lo confermano alcune semplici riflessioni logiche, nonché i dati empirici. Dal punto di vista dell’imputato, la prospettiva che il semplice decorso del tempo faccia prima o poi estinguere un processo d’appello giustifica – del tutto lecitamente – l’adozione di una strategia processuale volta a rallentare il più possibile l’iter giudiziario. Dal punto di vista dell’accusa le possibilità sono due: o il rischio che il reato cada in prescrizione funge davvero da pungolo per spingere ad una maggiore efficienza – ma allora i fatti ci dimostrano che non è neanche lontanamente sufficiente – oppure non ha alcun effetto.
La Germania ha un sistema di diritto penale sostanziale e processuale non troppo dissimile da quello italiano e, pur avendo una giustizia funzionante, non è il paese dei processi lampo. Eppure, secondo i dati dell’Ufficio Federale di Statistica la durata media del processo d’appello (penale) nel 2019 era di 1,4 mesi, contro i 2 anni dell’appello italiano, quest’ultimo ancora in regime pre-riforma. Tutto merito della prescrizione? No, perché la prescrizione in Germania (così come praticamente in tutte le altre grandi democrazie liberali) è sempre sospesa dalla sentenza di primo grado fino al passaggio in giudicato della stessa e, anzi, in certi casi è temporaneamente sospesa persino nel corso del primo grado di giudizio.
Tanto basta a concludere che, se l’obiettivo è curare le lungaggini del processo penale italiano, la prescrizione è un farmaco inefficace che per giunta ha gravi effetti collaterali (non dimentichiamo che in certi distretti di Corti d’Appello particolarmente inconcludenti spesso si sa già in primo grado che la sentenza non ha alcuna speranza di passare in giudicato). Quindi la priorità è trovare una cura diversa, veramente capace di accelerare il decorso del processo penale. E gli spunti non mancano: ne parla ad esempio il costituzionalista Valerio Onida in un’intervista all’Huffington Post. E poi si può sempre buttare un occhio oltralpe per favorire l’ispirazione.
La Germania ha una rete di 638 tribunali di primo grado per reati di lieve entità (“Amtsgerichte”) che nel 2019 hanno definito 660.816 procedimenti in una media di 4,3 mesi. Nello stesso anno i tribunali ordinari di primo grado hanno definito in tutto 14.039 procedimenti: facile rendersi conto della mole di lavoro che smaltiscono gli Amtsgerichte. Infatti il loro organico è composto di giudici ordinari, regolarmente retribuiti e dotati di trattamento previdenziale. In Italia l’organo che più si avvicina all’Amtsgericht è l’ufficio del Giudice di Pace: ovvero un ufficio giudiziario gestito da magistrati onorari, precari, pagati poco o niente, privi di garanzie e di strutture, su cui grava un’ingente quota di procedimenti.
Ancora: al 31 dicembre 2018 in Germania (83 milioni di abitanti) nei tribunali di prima e seconda istanza risultavano impiegati 4.580 giudici ordinari assegnati al penale (dati dell’Ufficio Federale della Giustizia). Secondo un censimento condotto dall’ufficio statistico del Csm in una data non meglio specificata, ma pubblicato il 1° gennaio 2016, il numero di giudici ordinari assegnati al penale in Italia (61 milioni di abitanti) sarebbe di 2.296,6 unità, di cui 2.022,2 effettivi. Significa che in Germania c’è un giudice ogni 13.755 abitanti, in Italia uno ogni 30.168 (senza contare quei criptici 0,6 e 0,2 giudici).
Certi procedimenti durano troppo anche in Germania: uno dei più lunghi a Berlino è stato quello a carico di un gruppo di Hells Angels responsabili di aver invaso e distrutto un locale per scommesse uccidendo il titolare con una pistolettata. E’ durato cinque anni (in Italia sarebbe stato elevato a esempio di efficienza e rapidità) e ha riacceso il dibattito sulla durata dei processi. La ministra della giustizia Christine Lambrecht (Spd) ha reagito proponendo una riforma del processo penale che per il momento è rimasta lettera morta, ma che essenzialmente prevedeva un giro di vite su tutte le manovre manifestamente dilatorie che possono essere adottate dall’imputato, come le istanze di ricusazione. A nessuno è saltato in mente di tirare in ballo la prescrizione.
Certo, si può sempre obiettare che, in un sistema che non è in grado di garantire la ragionevole durata del processo, la prescrizione (non sospesa) è pur sempre un rimedio perché garantisce che prima o poi il processo si estinguerà. Ma bisogna chiamare le cose con il loro nome: non un “rimedio” bensì una sorta di eutanasia del processo penale, che pone l’Italia davanti alla lusinghevole alternativa tra essere un paese incivile – perché la macchina della giustizia tortura sistematicamente gli imputati per decenni – o un essere un paese incivile perché consente a delinquenti già condannati di farla franca per scadenza dei termini di prescrizione.
E’ evidente che la cura non è questa, e la prova ci proviene forte e chiara da tutti i paesi (come la Germania) in cui sospensione della prescrizione e ragionevole durata del processo vanno a braccetto senza alcun problema. Bisogna invece aumentare le risorse a disposizione della giustizia, sia in termini di personale, sia in termini di dotazione di mezzi, razionalizzare i processi, spingere sulla digitalizzazione, depenalizzare molto di più, eliminare la barbarie dei processi mediatici: la lista è lunga.
La speranza è che la ministra Cartabia usi l’autorevolezza che le deriva da indiscussa competenza tecnica per adottare misure realmente e strutturalmente incisive sulla durata dei processi, e non il solito tacón che è peggio del buso.
*avvocato civilista italiano e tedesco, lavoro a Berlino dal 2012