A quando un commissario dei commissari? È la domanda che sorge spontanea dopo il fallimento della stragrande maggioranza delle opere pubbliche che fin qui si sono servite di una struttura commissariale. Per la Tav della Valsusa, per il terzo valico ferroviario Genova-Milano, per il Mose di Venezia, per la pedemontana veneta, per il terremoto del Centro Italia e persino per il ponte sullo stretto di Messina c’è stato un commissario straordinario. E sono tantissimi altri i commissari piazzati in tutto lo Stivale. Gli ultimi dalla ministra Paola De Micheli, poco prima di lasciare la carica. Ciononostante, la gran parte delle opere commissariate resta in gravissimo ritardo, e i loro costi sono lievitati.
La stessa sorte, prevedibilmente, toccherà all’ennesimo provvedimento “sblocca cantieri” promesso dal ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile. Molte delle opere commissariate non sono neppure iniziate, alcune non hanno neppure un progetto, e per altre i cantieri sono fermi per serissime indagini della magistratura. L’unica che è stata completata velocemente è il ponte Morandi a Genova, ma solo perché in questo caso sono stati messi da parte decreto leggi e regole, e si è potuto affidare i lavori senza gara al trio nazional-popolare Fincantieri-Salini-Fs a cui non si poteva dire di no.
Anche se c’era un altro consorzio d’imprese, guidato dalla China communications construction company (Cccc) con la Salc di Milano, la cui offerta prevedeva tempi e costi minori. Inoltre, secondo questo progetto alternativo, il ponte sarebbe stato rifatto con tre corsie per senso di marcia e non due: con tre corsie, l’allargamento delle gallerie d’ingresso e d’uscita avrebbe ampliato la capacità del viadotto ed evitato la costruzione della Gronda di Genova, che prevede una spesa fino a 4 miliardi euro e un enorme impatto ambientale. Se il caso Genova deve fare scuola, l’unico insegnamento è che non servono commissari, basta abrogare la legge.
Ora il neo ministro Enrico Giovannini sta preparando un decreto per aggiungere altre opere da approvare entro giugno. Sull’inserimento nella lista di nuove opere, nelle commissioni parlamentari è ripartita la solita bagarre dai chiari connotati campanilisti e fuori da ogni strategia trasportistica e di valutazione dei costi e dei benefici. Nessuno sembra accorgersi che i moltiplicatori occupazionali di queste opere sono modesti e le tecnologie utilizzate scarse, insomma che il settore delle opere pubbliche è maturo e sarebbe (data la dimensione degli investimenti) in contrasto con gli obiettivi del Recovery Plan.
È già partita, invece, la contesa per la nomina di commissari amici di questa o quella parte politica. Le risorse per le opere pubbliche dovrebbero, al contrario, servire per riformare la governance degli appalti, a partire dallo stato di arretratezza delle stazioni appaltanti (pubbliche) e dalle richieste dei committenti (pubblici anch’essi). Le prime che indicono gare (poche) solo se costrette, prive come sono di professionalità e di esperti in project management. I secondi che non hanno vincoli economici, tanto poi ci pensa il bilancio dello Stato: per la Tav italiana, ad esempio, il costo per chilometro è triplo di quelle del resto d’Europa, e non sono neppure chiari gli obiettivi che si vogliono raggiungere.
La frammentazione delle competenze, il quadro normativo complesso e le valutazioni d’impatto ambientale non frenerebbero le opere se la progettazione fosse di qualità, se fossero coinvolti i cittadini interessati e se i controllori non fossero anche i controllati. Oltre a una semplificazione delle norme servirebbe l’adozione e l’applicazione della normativa europea sugli appalti.
Partire con gli investimenti senza aver modificato la legge, pensando piuttosto di escluderla, sarebbe un errore madornale: consentirebbe infatti, ancora una volta, di partire con i lavori di un’opera per lotti costruttivi e non funzionali. Il che significherebbe disperdere le risorse e non avere di default tempi certi, visto che il lotto costruttivo permette di cominciare un’opera anche se non ci sono le condizioni per completarla (autorizzazioni, espropri, risorse), e quindi l’opera resta inservibile anche parzialmente; il lotto funzionale, invece, obbliga ad avere in mano almeno la certezza di completarne una parte, rendendola parzialmente servibile.