In esclusiva per ilfattoquotidiano.it pubblichiamo un estratto de La mano invisibile – Come il Partito Comunista Cinese sta rimodellando il mondo (Fazi Editore), nelle librerie dal 25 marzo 2021. In anteprima italiana un paragrafo dal capitolo dodici (La gestione del pensiero: l’influenza del PCC nell’università occidentale) in cui gli autori, i giornalisti australiani Clive Hamilton e Mareike Ohlberg, descrivono le fitte attività di lobbying e di pressione politica degli Istituti Confucio, istituiti nel 2004 per la diffusione all’estero della lingua e cultura cinese e “come modo inoffensivo di diffondere la narrazione del Partito e allo stesso tempo anche per riuscire ad accedere alle università estere”.
[…] Le ingerenze degli Istituti Confucio nella libertà accademica, nella libertà di espressione e altri diritti della persona sono state documentate anche in un gran numero di altri paesi. Uno dei casi più ignobili si verificò in occasione della conferenza annuale del 2014 dell’European Association of China Studies, in Portogallo, sponsorizzata dall’Hanban (ufficio del Ministero dell’Istruzione cinese a cui fanno capo gli Istituti Confucio, ndr) e dalla fondazione Chiang Chingkuo di Taiwan. Scontento perché nel programma della conferenza era menzionata quella fondazione e altre organizzazioni taiwanesi, il direttore generale dell’Hanban, Xu Lin, impose di requisire tutti i programmi stampati e di strappare la pagina incriminata. L’incidente traumatizzò i partecipanti alla conferenza, ma non ci fu alcuna ricaduta sull’Hanban né sugli Istituti Confucio in Europa.
La censura non è ignota in altri lavori promossi dagli Istituti: gli argomenti legati alle “tre T”, ossia Taiwan, Tibet e Tienanmen, sono esclusi da qualsiasi discussione nella maggior parte degli Istituti Confucio. La giornalista Isabel Hilton si accorse che un suo articolo scritto per un volume sponsorizzato da un Istituto Confucio era stato tagliato: il pezzo mancante parlava di un ambientalista cinese.
Gli Istituti Confucio sono stati coinvolti in attività di lobbying svolte dietro le quinte al fine di cancellare eventi pubblici. Così è stato a Melbourne, nel 2018, per un documentario che criticava proprio tali enti, la cui proiezione venne cancellata dalla Victoria University, che inizialmente aveva prestato uno dei suoi teatri proprio a tale scopo. Dapprima l’università fu avvisata dal direttore dell’Istituto Confucio presente nel campus, il professore Colin Clark, che c’era un problema da risolvere, e poi cedette quando il consolato cinese fece pressioni ulteriori; alle richieste di chiarimento da parte del finanziatore del video, l’università rispose con una menzogna, sostenendo che per sbaglio il teatro era stato prenotato per due eventi diversi e non ce n’era nessun altro disponibile. Il giorno previsto, però, una serie di spazi altrettanto adatti risultavano vuoti. La considerazione ironica non andò sprecata: un documentario, la cui tesi era che gli Istituti Confucio esercitino una pressione politica su chi li ospita, fu messo al bando proprio a seguito della pressione politica esercitata da un Istituto Confucio sull’ente che l’ospitava. Il codice di condotta della Victoria University dichiara che l’università è «un luogo di apprendimento e di pensiero indipendente, dove poter avanzare idee e opinioni argomentate, espresse in piena libertà, pur mantenendo il rispetto per gli altri».
Nel 2013 il prestigioso ateneo di Sydney fu accusato di aver cancellato una visita del Dalai Lama per non guastare i legami che aveva con la Cina, compreso il finanziamento ricevuto per il suo Istituto Confucio. Quando quell’evento fu respinto fuori del campus e venne proibito l’uso del logo dell’ateneo, il vicecancelliere Michael Spence disse che tutto ciò era fatto «in vista del miglior interesse dei ricercatori di tutta l’università». Quasi cinque anni dopo lo stesso Spence disse che le affermazioni del governo e dei giornali sull’influenza del Partito comunista cinese (Pcc) in Australia non erano che «ciance sinofobe», a cui fece seguire l’anno dopo l’accusa, nei confronti di chi esprimeva preoccupazione per l’influenza del Pcc, di voler ripristinare la politica australiana della prima metà del Novecento, che consentiva l’immigrazione dei soli europei.
© 2020 Clive Hamilton and Mareike Ohlberg
First published by Hardie Grant Books, Australia
© 2021 Fazi Editore srl