La ricerca per contrastare Covid non si ferma e gli scienziati – a fronte di ormai oltre due milioni di morti nel mondo – cercano senza sosta armi contro la malattia innescata dal coronavirus Sars Cov2. Secondo un team di ricercatori italiani, statunitensi, canadesi e francesi è possibile intrappolare il virus impedendogli di uscire dalle cellule infettate per diffondersi a tutti i tessuti del corpo: questo grazie a un composto naturale e ben tollerato dall’organismo umano, chiamato I3C (Indolo-3 Carbinolo), che nei primi test in provetta si è dimostrato capace di inibire gli enzimi che favoriscono l’evasione del virus. Il prodotto è già utilizzato per altri trattamenti (e studiato per un virus come Ebola) e dunque potrebbe essere avviato rapidamente ai test clinici contro Covid.
I ricercatori hanno identificato una classe di enzimi (E3-ubiquitin ligasi) che servono al coronavirus per uscire dalle cellule infettate e diffondersi a tutti i tessuti dell’organismo: questi enzimi sono espressi a livelli elevati nei polmoni dei pazienti Covid e in altri tessuti infettati. In un sottogruppo di pazienti gravi sono state identificate anche delle alterazioni genetiche rare che aumentano l’attività degli enzimi favorendo l’evasione del virus infettante. Test in vitro hanno dimostrato che questo processo può essere bloccato con il composto I3C, che dunque si candida a essere usato come antivirale da solo o in combinazione con altre terapie. “Dobbiamo testare il farmaco in studi clinici con pazienti Covid-19 per valutare rigorosamente se può prevenire la manifestazione di sintomi gravi e potenzialmente fatali – sottolinea il genetista Giuseppe Novelli – “Avere opzioni per il trattamento, in particolare er i pazienti che non possono essere vaccinati, è di fondamentale importanza per salvare sempre più vite umane e contribuire a una migliore condizione e gestione della salute pubblica”. Dobbiamo pensare a lungo termine – spiega il genetista Pier Paolo Pandolfi (Università di Torino, Università del Nevada) – I vaccini, pur essendo molto efficaci, potrebbero non esserlo più in futuro, perché il virus muta, e quindi è necessario disporre di più armi per combatterlo”. In futuro “sarà importante valutare se I3C possa anche ridurre le gravissime complicazioni cliniche che molti pazienti sperimentano dopo aver superato la fase acuta dell’infezione. Questo rappresenterà un grave problema negli anni a venire, che dovremo gestire”.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Cell Death &Disease (Nature) da un gruppo internazionale coordinato dai Novelli e Pandolfi. Alla ricerca, cofinanziata dalla Fondazione Roma, hanno collaborato anche l’Ospedale Bambino Gesù di Roma, l’Istituto Spallanzani e l’Università San Raffaele di Roma, insieme a diverse istituzioni americane (Harvard, Yale, Rockfeller, NIH, Mount Sinai, Boston University), canadesi (Università di Toronto) e francesi (INSERM Parigi, Hopital Avicenne).