Sono da poco passati cinque anni dall’accordo siglato tra Unione europea e Turchia sulla gestione dei rifugiati siriani in fuga dalla guerra. Cinque anni nel corso dei quali vantaggi e criticità si mescolano alla geopolitica e agli equilibri tra super players nel Mediterraneo orientale. In un lustro i flussi di rifugiati sono stati ridotti, ma sono aumentate le immagini drammatiche di morti e di hotspot vergogna, come quello di Moria in Grecia. In più, grazie alla spinta tedesca (secondo cui l’accordo sarebbe un modello per tutti gli Stati membri), si è dato al presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, un potere negoziale enorme, che oggi rivendica nuovamente chiedendo altri soldi.
L’obiettivo iniziale era ridurre i flussi di rifugiati attraverso il Mediterraneo orientale verso la Grecia e poi verso l’Ue. Nel 2015, secondo la Commissione Ue, più di 850mila rifugiati erano entrati nel primo Paese di frontiera europeo su quella che fu presto ribattezzata Rotta Balcanica. Ma finora l’Europa non è riuscita a riformare la politica comune. Inoltre, sul nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo si abbatte la critica di alcune associazioni icome Asgi, Intersos, Mdm, Medu, Msf, Sanita’ Di Frontiera e Simm secondo cui il provvedimento rischia di ingrossare il modello drammatico rappresentato dai grandi centri di accoglienza, visto che andranno realizzati mega hotspot sul modello di Moria.
Primo aspetto il piglio scelto da Bruxelles e Ankara per continuare a gestire la situazione dei rifugiati siriani. Non va dimenticato che dieci anni fa, con l’inizio della guerra, l’Europa si è avviata a vivere la sua più grande crisi di rifugiati dai tempi dell’Olocausto, con poco meno di 6,6 milioni di siriani che sono stati costretti a fuggire dalla propria terra, di cui un milione riversatisi in Germania, Svezia, Austria e Paesi Bassi. In Turchia ci sono quasi 4 milioni i siriani già registrati ufficialmente, ma con un trend in costante crescita, come dimostrano i circa 500mila bambini nati nell’ultimo lustro. Dei rifugiati presenti, più di 100mila hanno già ottenuto la cittadinanza turca, agli altri Ankara concede solo lo status di “protezione temporanea”, dicitura che non consente però loro di accedere al sistema statale dei bisogni primari e al mondo del lavoro. A preoccupare, inoltre, sono le condizioni di vita dei rifugiati nella parte meridionale della Turchia, come denunciato da Oxfam.
Di positivo c’è il Ccte (Conditional Cash Transfers for Education), ovvero il più grande programma di educazione umanitaria finanziato dall’Ue per offrire un sostegno alle famiglie siriane i cui figli frequentano regolarmente la scuola. Progetti che dovranno essere rifinanziati per garantire ai piccoli una continuità educativa e un apporto sociale non saltuario. In base all’accordo firmato il 18 marzo 2016, l’Ue ha offerto un pacchetto di aiuti del valore di 6,7 miliardi di dollari e vari altri vantaggi politici per Ankara, con la promessa turca di chiudere il rubinetto delle partenze. Nel frattempo le parti hanno non poche difficoltà diplomatiche, sia nel trovare un consenso sui termini aggiornati di quell’accordo, sia relativamente ad altre partite strettamente connesse, come le pretese turche sul gas nel Mediterraneo orientale e i nuovi equilibri geopolitici in Libia e in Siria.
Dal punto di vista economico, Bruxelles ha detto di aver inviato 4,1 miliardi, mentre il resto è in contratti e sarà impiegato entro il 2023. Erdogan invece dichiara di aver ottenuto solo 3,6 miliardi e lamenta la mancata liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi, passaggio che si è interrotto a causa della crisi del gas a Cipro, quando la Turchia ha minacciato uno Stato membro dell’Ue e le aziende internazionali già impegnate nell’attività legata ai giacimenti di gas.
Nel mezzo anche la nuova ondata di qualche mese fa, con gli scontri al confine con la Grecia e il caos in Bosnia. Sul primo punto si registra l’ultimo rapporto Borrell secondo cui, in occasione degli eventi del febbraio 2020 a Evros, la Turchia ha incoraggiato attivamente 10mila migranti e rifugiati a entrare nell’Ue con la forza: una condotta che si pone in contraddizione con la dichiarazione congiunta Ue-Turchia del 2016. In parallelo va segnalato il paper redatto dal Border Violence Monitoring Network secondo cui l’85% delle quasi 900 persone le cui testimonianze compaiono nel rapporto sono state respinte con violenza al confine ellino-turco e sottoposte a torture o a trattamenti inumani.
La Grecia sta inoltre accelerando la costruzione di una recinzione lunga 27 chilometri lungo il confine in questione, dal momento che la Turchia potrebbe decidere di favorire nuovamente un massiccio attraversamento della frontiera da parte di rifugiati siriani. Nella zona la Direzione Generale Migrazione e Affari Interni della Commissione Europea ha deciso di far realizzare un moderno sistema di sorveglianza del costo di 18 milioni di dollari con 11 telecamere in grado di monitorare fino a 15 chilometri oltre la frontiera, in un’area dove già opera il personale di Frontex. Proprio il soggetto che monitora le frontiere dell’Ue preme affinché le sue guardie siano armate entro la prossima estate: un primo accordo di massima pare sia stato raggiunto tra il governo di Atene e l’agenzia con sede a Varsavia, che in Grecia ha il suo maggior numero di addetti impiegati, circa 800.