La sentenza è destinata a far discutere. Il fatto risale a marzo del 2020 e il gup si è pronunciato oggi accogliendo la richiesta della procura di Milano "perché il fatto non sussiste". Il giovane finito a processo per falso, un 24enne, aveva dichiarato di star rientrando da lavoro ma una successiva verifica lo aveva smentito
A marzo dello scorso anno, in pieno lockdown era stato fermato e aveva mentito, scrivendo nell’autocertificazione che stava tornando a casa da lavoro anche se quel giorno non era in turno. Ma oggi, finito a processo con l’accusa di falso, il 24enne protagonista della vicenda è stato assolto perché “l’obbligo di dire la verità non è previsto da alcuna norma di legge” e, anche se ci fosse, sarebbe “in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo”, previsto dalla Costituzione. È destinata a far discutere la decisione presa dal gup di Milano, Alessandra Del Corvo con rito abbreviato. Il gup ha accolto la richiesta della procura di Milano di assoluzione “perché il fatto non sussiste“.
Il giovane, difeso dall’avvocato Maria Erika Chiusolo, fermato per un controllo alla stazione Cadorna il 14 marzo, aveva dichiarato di lavorare in un negozio e che in quel momento stava rientrando a casa dall’esercizio commerciale. Una decina di giorni dopo, però, per verificare se avesse detto la verità o meno, un agente aveva mandato una email al titolare del negozio, il quale aveva risposto dicendo che il 24enne quel giorno non era di turno. Per il giudice, si legge nella sentenza, “è evidente come non sussista alcun obbligo giuridico, per il privato che si trovi sottoposto a controllo nelle circostanze indicate, di ‘dire la verità’ sui fatti oggetto dell’autodichiarazione sottoscritta, proprio perché non è rinvenibile nel sistema una norma giuridica” sul punto. Secondo il gup, non solo mancano una norma specifica sull’obbligo di verità nelle autocertificazioni prodotte per l’emergenza Covid e una legge che preveda l’obbligo di fare un’autocertificazione in questi casi, ma è anche incostituzionale sanzionare penalmente “le false dichiarazioni” di chi ha scelto “legittimamente di mentire per non incorrere in sanzioni penali o amministrative”.
Secondo la sentenza, chi viene sottoposto a controlli del genere con le autodichiarazioni non può quindi trovarsi “di fronte all’alternativa di scegliere tra riferire il falso, al fine di non subire conseguenze”, ma poi essere comunque “assoggettato a sanzione penale” per falso ideologico del privato in atto pubblico, e la scelta di “riferire il vero nella consapevolezza di poter essere sottoposto a indagini” per il reato di “inosservanza dei provvedimenti dell’autorità”, come accadeva in quel periodo di lockdown. Questa “alternativa” di scelta tra il vero e il falso, chiarisce ancora il gup, “contrasta con il diritto di difesa” della persona. Altrimenti, si legge ancora, si dovrebbe sostenere che “il privato sia obbligato a ‘dire il vero'” nell’autodichiarazione “pur sapendo che ciò potrebbe comportare la sua sottoposizione a indagini” per un reato penale o, come in questi casi ora, a “sanzioni amministrative pecuniarie”. Il gup, infine, nella sentenza fa notare come nel caso dell’autocertificazione scritta per l’emergenza Covid, il controllo successivo “sulla veridicità di quanto dichiarato” dai privati “è solo eventuale e non necessario da parte della pubblica amministrazione” e quindi, tanti presunti atti falsi possono rimanere privi di sanzioni.
Non è la prima sentenza che va in questa direzione. Già a gennaio il giudice Dario De Luca, gip del tribunale di Reggio Emilia, aveva prosciolto una coppia fermata a un posto di blocco in pieno lockdown esibendo un’autocertificazione falsa, ritenendo illegittimo il dpcm anti-Covid. La sentenza è diventata definitiva lo scorso 13 marzo perché il pm non ha fatto appello e una sentenza, che sembrava destinata a fare scalpore, è diventata definitiva. Secondo il ragionamento del giudice, di fatto, non si può imporre un obbligo di permanenza domiciliare che “nel nostro ordinamento giuridico consiste in una sanzione penale restrittiva della libertà personale che viene irrogata dal giudice penale per alcuni reati all’esito del giudizio”.