Le storie delle lavoratrici che non possono beneficiare dei congedi né dei bonus baby sitter previsti dal decreto Covid. Solo una settimana fa la ministra per le Pari opportunità Elena Bonetti assicurava che si stesse lavorando per ampliare i finanziamenti, ma finora nulla è cambiato. E non tutte hanno l'opzione smart working
“Io ho sempre apprezzato il lavoro da casa, perché è utile e conviene. Il problema arriva quando le scuole sono chiuse. A quel punto cambia tutto”. Alice è impiegata in una multinazionale. Ha due figli, di uno e tre anni. Suo marito lavora in presenza: “E dall’azienda gli hanno detto che non ha accesso al congedo, dato che io sono in smart. Per lo stesso motivo non posso chiederlo nemmeno io: a me sembra assurdo”. Invece funziona così. Il congedo parentale al 50% dello stipendio è permesso alternativamente a entrambi i genitori con figli minori di 14 anni – l’intenzione è evitare di gravare solo su uno dei due, spesso la donna – per tutto il periodo di didattica a distanza. Però non si può chiederlo se è possibile svolgere la professione da casa. La ministra per le Pari opportunità Elena Bonetti nei giorni scorsi lo ha promesso a più riprese: “Stiamo lavorando per allargare la platea dei beneficiari del bonus baby sitter“. Ma non solo, solo il 17 marzo ha detto: “Nei prossimi provvedimenti stiamo cercando le risorse perché le famiglie devono avere tutti gli aiuti, in particolari le lavoratrici e i lavoratori perché la cura dei figli va condivisa tra donne e uomini. Lo smart working non è certo uno strumento di welfare”. Una promessa che finora non ha avuto nessun riscontro pratico: nel decreto Sostegni non ci sono fondi aggiuntivi e la situazione per le mamme costrette a casa è rimasta la stessa.
“Io mi considero comunque una privilegiata, perché posso contare sui nonni”, continua Alice. “Ma non sempre: due lavorano e due hanno altri nipoti da gestire. È un incastro millimetrico”. Quindi, precisa, sta continuando a lavorare grazie alla propria, di nonna: “Ha 84 anni e ci sta aiutando tantissimo. Le lasciamo il bambino più piccolo quasi tutto il giorno. Io mi occupo del grande. Così posso farcela”. Perché i ritmi lavorativi non si attenuano in modalità smart. Anzi, rimangono tali e quali: “I miei capi vedono quante mail mando, quante telefonate faccio. Non voglio trascurare i miei figli, ma neanche sembrare poco operativa”. L’esigenza che sente come preponderante è la flessibilità oraria: “La modalità smart è molto rigida. Devo connettermi a ore stabilite e fare pause precise. Invece mi sarebbe utile per esempio lavorare la sera, quando i bambini stanno con il papà”. Alice è dipendente e non rientra fra le categorie – autonomi, sanitari e forze dell’ordine – che possono beneficiare del bonus baby sitter, 100 euro a settimana. “Ma se potessi richiederlo la cifra non mi basterebbe. Ci vorrebbero almeno 300 euro, anche perché in un momento come questo le baby sitter si prendono una responsabilità ancora più grande del solito. È giusto che vengano pagate in modo adeguato”.
Pensa lo stesso Francesca, che lavora in un reparto di panetteria nella grande distribuzione. La sua vicenda è simile a quella di Alice, ma segue un corso diverso: ha dovuto utilizzare il congedo per quarantena scolastica quando è stato registrato un caso alle elementari frequentate dalle figlie. “E poi è partita la dad. Ora sono a casa, ancora dobbiamo capire come fare in seguito. Ho due bambine sotto i dieci anni: sono piccole e vanno aiutate con connessione e computer”. I 100 euro settimanali? “Non rientro fra le categorie che possono accedervi, ma mi sento di dire che sono una cifra bassa. Facciamo i conti: 10, 11 euro all’ora per più giorni fanno superare presto questa soglia. E non si può lavorare per pagare la baby sitter”.
I buoni sono invece destinati alle partite Iva con figli sotto i 14 anni. La loro condizione rimane però fra le più critiche: “Tra le nostre associate che hanno chiesto il congedo parentale l’ha ottenuto solo il 3%. Il restante 97% è rimasto senza. Fra queste anche io, che ho due bambine”, spiega Emiliana Alessandrucci, presidente Colap – Coordinamento Libere Associazioni Professionali. “Questa mancanza, insieme alla scelta di darci solo il bonus, per noi è preoccupante. Deriva da una logica errata, secondo cui l’autonomo lavora da casa e quindi è abituato a svolgere la propria professione in un contesto domestico. Ma non è detto sia così: c’è chi ha un’attività, chi uno studio. Il congedo sarebbe stato il provvedimento per noi più utile”. Non solo, anche incentivi per sostenere gli acquisti necessari alla formazione a distanza dei figli: “E questo varrebbe per tutti, non solo per le partite Iva. Una mia amica ha tre bambini, tutti in dad. Ha dovuto comprare tre pc: sono soldi, non tutti ce la fanno”. Il bonus baby sitter è utile, precisa Alessandrucci, ma non può bastare.
C’è poi il problema tutele, spesso un tasto dolente per chi lavora in proprio: “Io stessa ho avuto il Covid nelle settimane scorse. Non mi sono potuta permettere di non lavorare. Da remoto, ma sono andata avanti. In quanto autonomi, salvo specifiche condizioni non abbiamo diritto all’indennità Inail”, cioè l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, rivolto ai dipendenti. “Sono rimasta a casa un mese, perché per fortuna posso fare il mio lavoro a distanza. Ma vogliamo pensare a una partita Iva che non fattura per quattro settimane?”.
Laura lavora in uno studio medico, si occupa di riabilitazione in età evolutiva. Segue bambini disabili e a seconda dei trattamenti necessari alterna presenza a smart working: “Quest’ultimo è la ragione che ci impedisce di accedere ai congedi, e non ha alcuna regolamentazione. Nessuno ci ha detto come farlo, con che orari, con che strumenti. Siamo noi che mettiamo computer, postazione, linea telefonica. Ci viene valutato inoltre solo il tempo effettivamente svolto: è come se lavorassimo a cottimo”, spiega. Laura – che ha due figlie – e le sue colleghe si trovano inoltre in una situazione particolare: sono sanitarie, ma non hanno diritto al bonus da 100 euro perché non sono in prima linea contro il Covid. “E comunque, pensiamoci. Quella cifra coprirebbe 10 ore settimanali, ma l’orario medio di un sanitario è di 38 ore”, spiega. “Ho una figlia che va alle elementari, un’altra alle medie. Si collegano tutta la mattina per le lezioni. Significa che io non riesco lavorare in quel periodo, sia perché non reggerebbe la linea sia perché mi chiederebbero aiuto. E non posso avere interruzioni mentre sto eseguendo un trattamento neurocognitivo”. Quindi si dedica alla sua attività nel pomeriggio. Cosa serve più di tutto in un momento come questo? “Io riaprirei le scuole. E cercherei di regolamentare lo smart working. Finché non ha indicazioni precise non può funzionare”. Infine, distanza e presenza spesso non combaciano e determinano contesti difficili da gestire: “I bambini disabili sono fra i pochi che possono andare a scuola. Si ritrovano in classe ma con il trattamento a distanza, perché noi terapiste non possiamo andare al lavoro. Un paradosso quotidiano”.