Spesso, quando apriamo la Commedia, rimaniamo stupiti di quanto la lingua di Dante, un uomo vissuto 700 anni fa, ci suoni familiare, veramente nostra. Abbiamo bisogno di un commento che ci spieghi magari le fonti di un certo episodio o di un certo canto, e anche parole e giri di frase particolarmente difficili o non più in uso: ma la sensazione generale è quella di riconoscersi nella lingua di Dante, di sentirci vicini a lui.
In effetti, il linguista Tullio de Mauro ha mostrato che il nostro vocabolario fondamentale, cioè l’insieme di quelle parole che usiamo di più nella comunicazione quotidiana, si trova già formato all’80% nella Commedia (ad esempio in La “Commedia” e il vocabolario di base dell’italiano, nel volume La funzione Dante e i paradigmi della modernità, a cura di P. Bertini Malgarini et al., Pisa 2015).
Ma c’è di più: il debito che abbiamo contratto con Dante si misura anche su tutta una serie di parole e di espressioni che il poeta della Commedia ha inventato, oppure che ha dotato di un significato e di un uso nuovi, e che attraverso di lui sono arrivate nella nostra lingua di tutti i giorni. Se non fosse stato per Dante, ad esempio, noi non useremmo il verbo stormire, per descrivere il rumore del vento tra i rami o tra le frasche (Inferno XIII 114: “ch’ode […] le frasche stormire”); e nemmeno potremmo usare il sostantivo bolgia per riferirci a un luogo affollato e caotico: questa possibilità ce l’ha data Dante, che utilizza la parola per indicare alcuni cerchi infernali, dandole un significato nuovo rispetto a quello originario di ‘sacca, otre’, significato da cui poi si è potuto sviluppare il nostro.
Quando vogliamo dire che qualcuno ha compiuto una certa azione alla chetichella, di nascosto, spesso diciamo “quatto quatto”: ma il primo a usare questo aggettivo nella forma raddoppiata, che oggi è di gran lunga la più frequente, è stato proprio Dante, in Inferno XXI 89: “tra li scheggion del ponte quatto quatto”.
Molte delle parole che il genio di Dante ha saputo creare, ad esempio i bellissimi verbi inmiarsi e intuarsi, che il poeta escogita per rendere l’idea della straordinaria empatia delle anime del Paradiso, noi non le usiamo più – o magari le usano solo gli altri poeti: ad esempio Guido Gozzano, che all’inizio del Novecento riprendeva il paradisiaco ‘inmillarsi’, ‘moltiplicarsi per mille’ (Paradiso XXVIII 93) per descrivere il gioco di specchi del lampadario del salotto borghese di Nonna Speranza: “il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone / e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto” (L’amica di Nonna Speranza, 11-12).
Mentre invece usiamo ancora oggi dei latinismi, parole “preziose” dunque, che il poeta ha accolto nella Commedia e che per questa via sono sopravvissute fino a noi: è così che, con un’intenzione un po’ scherzosa, possiamo dire ad esempio: “oggi mi sono svegliato a un’ora antelucana”, cioè prestissimo, prima dell’alba (Purgatorio XXVII 109-112: “E già per li splendori antelucani […] le tenebre fuggian da tutti lati”). Una storia un po’ più tortuosa è quella dell’aggettivo mesto, altro latinismo, che per noi vuol dire ‘mogio, triste’: ma anche questa storia comincia con Dante, che immette mesto nella lingua della Commedia con la sua valenza etimologica di ‘disperato’ (lo troviamo tre volte, tutte nell’Inferno), e lo passa così a Petrarca e Boccaccio, che utilizzandolo nel contesto della poesia amorosa ne stemperano il significato, consegnandolo infine a noi.
Dante non ci ha regalato soltanto parole, ma anche espressioni e modi di dire che spesso ci viene spontaneo usare nel parlato quotidiano, magari però allontanandoci dal loro significato originario o indebolendolo molto: di una cosa che non ci entusiasma particolarmente diciamo che è “senza infamia e senza lode” (Inferno III 35-36: “coloro / che visser sanza ’nfamia e sanza lodo”); di qualcosa che ci spaventa, oppure che ci indigna, possiamo dire che ci “fa tremare le vene e i polsi” (Inferno I 90: “ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi”); oppure, se siamo imbestialiti, è perché qualcosa o qualcuno ci ha fatto “perdere il ben dell’intelletto” (in Inferno III 17-18 le “genti dolorose / c’hanno perduto il ben de l’intelletto” sono le anime dei dannati che hanno perso la possibilità di contemplare Dio).
Ma di espressioni dantesche se ne ritrovano anche dove meno ce le aspetteremmo: l’espressione “dalla cintola in su”, che nel X canto dell’Inferno ci mostra come in un’inquadratura cinematografica lo straordinario personaggio di Farinata degli Uberti (Inferno X 33: “da la cintola in su tutto ’l vedrai”), è passata nel gergo del calcio per indicare centrocampo e attacco, appunto da metà campo in su.
Rispolverando un’etichetta ottocentesca, si può dire che Dante è davvero il “padre fondatore” della lingua italiana: è il poeta che con la sua inarrestabile creatività linguistica ci ha dato le parole non solo per seguirlo ancora oggi nel racconto del viaggio incredibile della Commedia, ma soprattutto per raccontare e raccontarci giorno dopo giorno.