Alla gravissima crisi sanitaria ed economica si aggiunge oggi il fatto che, nell’orientamento politico dominante che si preoccupa più della tutela dei singoli anziché della tutela della collettività, l’Avvocatura dello Stato, mutando il suo precedente atteggiamento, ha chiesto alla Corte Costituzionale di accogliere quanto prospettato dalla Corte di cassazione contro l’attuale divieto di concedere la libertà condizionale al condannato all’ergastolo per reati di mafia che abbia negato di voler collaborare con la giustizia.
Se ciò avvenisse, i fiumi di sangue versati dalle vittime di mafia e da tanti magistrati che si sono opposti alle organizzazioni mafiose non sarebbero serviti a nulla.
Ha ragione infatti il Procuratore della Repubblica Nino Di Matteo nel rilevare che la cancellazione della collaborazione con la giustizia come condizione per la concessione della libertà condizionale, darebbe un colpo mortale alla costruzione di un sistema penalistico idoneo a sconfiggere la mafia e si eseguirebbe quanto chiesto da Totò Riina a questo proposito.
In altri termini se davvero si concedesse all’ergastolano di non collaborare con la giustizia e ciò nonostante gli si conferisse il diritto di ottenere la libertà condizionale solo a seguito di aver dato prova di buona condotta durante l’espiazione della pena, verrebbe meno l’elemento psicologico essenziale su cui si fonda la costruzione giuridica ottenuta con tanta fatica da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino.
Rilevo inoltre, dal mio punto di vista, che la Repubblica, e cioè il Popolo sovrano, ha il diritto/dovere inderogabile di difendere innanzitutto se stessa dall’azione criminale delle organizzazioni mafiose, ovviamente nei limiti dell’articolo 27 della Costituzione, il quale non è affatto violato dalle vigenti disposizioni normative in materia.
D’altro canto gli argomenti portati a sostegno della illegittimità delle norme che prevedono l’obbligatorietà della collaborazione con la giustizia per ottenere una liberazione anticipata non hanno nessun fondamento giuridico. Si tratta di due concetti essenziali, e cioè della rieducazione del condannato e della necessità, che sarebbe negata all’ergastolano, di riacquistare la libertà.
Infatti nel caso di specie la possibilità di riacquistare la libertà condizionale è tutta nei poteri del condannato, il quale, dopo aver compiuto esecrabili delitti, se tiene alla propria libertà, deve almeno essere pronto a collaborare per il bene della Repubblica. Ciò è confermato anche dall’articolo 3 della Costituzione, perché l’azione del criminale è un ostacolo insormontabile per lo sviluppo della persona umana e per la partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica e sociale del Paese.
Peraltro nel caso di specie chi rifiuta di collaborare con la giustizia non può essere assolutamente considerato “rieducato”, in modo da esser parte, come cittadino, dell’intero Popolo sovrano. Né si può presumere che un soggetto di questo tipo possa difendere i diritti inviolabili dell’uomo ed assolvere a doveri di solidarietà economica, politica e sociale, come prevede l’articolo 2 della Costituzione.
D’altro canto non si può dire che le norme in questione tolgono la speranza di riottenere la libertà, poiché è nei poteri dello stesso condannato di ottenere quest’ultima semplicemente collaborando con la giustizia.
Ricordo in proposito che l’articolo 54 della Costituzione impone a tutti i cittadini di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi e dispone che i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore.
Insomma non si può parlare di lesione del principio rieducativo della pena se prima la Repubblica sia fatta salva dalle insidie della mafia.