Qualche giorno fa Nicola Zingaretti, già ex segretario del Partito Democratico, veniva avvistato a inveire contro la sindaca di Roma, quella Virginia Raggi vilipesa e sbertucciata un giorno sì e l’altro pure dall’altrimenti dedito al bon ton centro sinistra. A Di Martedì Zingaretti definiva Raggi “una minaccia per Roma”. La minaccia per Roma però è forse – dico forse – costituita più dal malaffare che l’ha attanagliata e che per esempio ha prodotto la cosiddetta Mafia Capitale, oppure da quel clan di galantuomini che le volevano piazzare un ordigno sotto la macchina e che la costringono a girare scortata, che dalla sindaca.
Ma perché evochiamo queste vicende, questi toni, che hanno fatto inalberare Raggi e l’hanno costretta a una piccata risposta sui social? Perché il centrosinistra avrebbe voluto fare delle questioni di genere uno dei punti fondamentali non solo di un programma politico, ma anche della propria impostazione culturale. “Fosse avvenuto a parti rovesciate”, si dice…
La parità di genere figura già all’art. 3 dello Statuto del Pd. Ma poi nelle regole per la formazione delle liste, per esempio. Eppure in questi giorni è accaduto qualcosa che ha aperto il vaso di Pandora: la guerra fratricida per l’elezione delle capogruppo del partito in Parlamento.
Ma partiamo dall’inizio: Enrico Letta, appena eletto Segretario praticamente all’unanimità, dichiara la necessità di cambiare i capigruppo, considerati due quinte colonne di Matteo Renzi. Il pretesto? Nominare due donne in nome della parità di genere.
E già qui qualcuno – troppo pochi, in verità, soprattutto nel centro sinistra – ha storto il naso. Inutile a mio parere nascondere che la questione del genere veniva usata come grimaldello per risolvere in realtà legittime, ma un po’ tristi, vicende di potere: eliminare le due quinte colonne e mettere qualcuno di più fedele alla linea del neo-segretario.
Non un buon inizio, mi pare, non soltanto perché Letta è partito cominciando a occuparsi delle solite questioni di articolazione interna di un partito costantemente alle prese con aggiustamenti negli equilibri di potere, e un po’ distratto sulle faccende che forse interessano un po’ di più al paese; ma perché lo ha fatto brandendo quello che il centrosinistra considera un tema caratterizzante.
Insomma, Letta ha usato il genere per risolvere la guerra interna tra bande che da anni insanguina il partito. Pochissime le intellettuali e politiche che hanno fatto sentire la loro voce, mentre da destra si sono uditi gli sghignazzi di chi non ha perso tempo a sottolineare l’ipocrisia della manovra.
Come se non fosse bastato, a questa uscita infelice si è andata a sommare, nelle ultime ore, la rissa tra due donne per il posto di capogruppo alla Camera, con Marianna Madia che ha accusato Deborah Serracchiani di essere stata cooptata, e così facendo ha sollevato il velo su qualcosa che – de te fabula narratur – da anni in molti (molte?) pensano ma che dicono con la mano sulla bocca. Ovvero che Madia stessa – colei che alla presentazione come candidata disse che portava in dose la sua “straordinaria inesperienza” – fa parte di quella schiera di cooptate.
Il discorso qui dovrebbe ampliarsi, nel senso che la selezione della classe dirigente politica è frutto a tutti gli effetti di cooptazione, sempre, non solo nel caso delle donne. Complici la devastazione dei partiti a livello territoriale e le regole elettorali, i partiti le liste le fanno nel chiuso delle stanze e gli incarichi li distribuiscono allo stesso modo.
Ma stavolta si è visto il re nudo, poiché l’operazione di utilizzo della questione del genere per fini non così nobili è stata davvero palese. Scoprendo il fianco a chi, nel centrodestra, da anni dice che lì le donne hanno più peso e più autonomia che in quel centro sinistra che invece ha bisogno di inserire la parità di genere nel programma per poi finire a gestirla così.
E a un occhio superficiale parrebbe anche vero, se non fosse che le varie Carfagna e Gelmini sono state cooptate tanto quanto le colleghe (e i colleghi, come si è detto sopra) del centrosinistra.
Rimane il fatto che il centrosinistra, con questa vicenda, ha dimostrato di avere un problema grosso, acuito dall’affaire Boldrini, che dimostra quanto la questione non sia tanto di donne contro uomini, ma anche di donne di potere contro donne subalterne, povere o precarie.
In altri termini, se il centrosinistra volesse occuparsi di donne, dovrebbe mettere a tema il nesso tra genere, classe sociale, condizione lavorativa, appartenenza etnica. Non basta il pinkwashing.