Sul banco degli imputati il poliziotto Derek Chauvin. Il processo è uno dei casi di più alto profilo contro la polizia violenta dal 1991, ovvero da quanto Rodney King fu brutalmente picchiato da quattro agenti a Los Angeles. Ma il timore è che non arrivi la giustizia auspicata, quanto una nuova ondata di proteste violente. I legali della famiglia di Floyd: "L'America chiede giustizia, il mondo intero ci sta guardando"
Inizia oggi il processo per la morte di George Floyd, ucciso a terra dagli agenti che lo avevano fermato per una banconota da 20 dollari contraffatta il 25 maggio 2020 a Minneapolis. Sul banco degli imputati Derek Chauvin, il poliziotto che insistendo con un ginocchio sul collo del 46enne afroamericano ne ha provocato il soffocamento. Immagini di un omicidio hanno fatto il giro del mondo e infiammato il movimento di Black Lives Matter, che dopo il caso Floyd ha manifestato per settimane in tutti gli Stati Uniti, scioccati dai fatti e immobilizzati dalla pandemia di Covid. Il suo è stato un caso che ha portato alla ribalta ancora una volta l’irrisolto problema dell’eccesso di violenza da parte della polizia soprattutto verso le minoranze, con l’accusa frequente di razzismo. Il video della morte di Floyd, a terra per 8 minuti e 46 secondi con il ginocchio di Chauvin sul collo fino a soffocarlo, ha risvegliato la coscienza degli americani e spinto milioni di persone negli Stati Uniti e nel mondo a scendere in piazza per settimane per dire basta al razzismo. “L’America chiede giustizia, il mondo intero ci sta guardando”, ha dichiarato Benjamin Crump, uno degli avvocati che rappresentano la famiglia di Floyd. “Questo assassinio non è un caso difficile da giudicare”, ha affermato il legale parlando prima dell’avvio del processo.
Il processo è uno dei casi di più alto profilo contro la polizia violenta dal 1991, ovvero da quando l’afroamericano Rodney King fu brutalmente picchiato da quattro agenti a Los Angeles. Da allora diversi afroamericani sono morti nelle mani della polizia e gli agenti responsabili l’hanno per lo più fatta franca, come nei casi di Eric Garner, Breonna Taylor e Daniel Prude. Ora è la volta di Chauvin, ex veterano del dipartimento di polizia di Minneapolis. Il timore è che, anche in questo caso, non arriverà la giustizia auspicata, innescando una nuova ondata di proteste violente. Proprio per questo Minneapolis si presenta blindata all’avvio del processo, consapevole di avere addosso gli occhi di tutta l’America. “La gente non ha molta fiducia su una sua condanna. Abbiamo visto questo film già molte volte, potremmo recitarne le battute“, dice con triste sarcasmo il pastore Brian Herron, della Zion Baptist Church nel quartiere della comunità afroamericana di Minneapolis.
Mentre tutto è pronto per l’avvio del processo, a George Floyd Square – così come è stato chiamato l’incrocio dove è morto Floyd – continua il pellegrinaggio iniziato dieci mesi fa, in quel 25 maggio del 2020 in cui l’afroamericano è stato ucciso. Sulle barricate che circondano l’area si legge “state entrando nello stato libero di George Floyd“: ci sono fiori, murales, graffiti ‘I can’t breathe’ – non riesco a respirare, la frase pronunciata più volte da Floyd prima di morire – e candele. Non c’è la polizia: la sicurezza è gestita localmente e gli agenti si tengono alla larga. Divenuta simbolo della resistenza contro il sistema, il futuro della piazza è però incerto. Le autorità cittadine vorrebbero riaprire l’area alla circolazione anche se per ora è tutto rimandato a dopo il processo. Il rischio è infatti di riaccendere gli animi e le proteste in uno dei momenti più delicati nella storia della città, destinato a scrivere una pagina importante anche nella storia dell’America.