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Com’è diventato Pete Doherty. Con amore, storia di un 42enne che è stato (e forse è ancora) una vera rockstar

A guardare Pete in quelle foto da "come è diventato" (già, pure noi abbiamo titolato così, è la vita messieurs -dames), quei ragazzi lì hanno avuto un sussulto. Alcuni sono corsi subito a vedere Carl Barat...

di Claudia Rossi

Era il 2002. Era l’anno d’esordio dei Libertines. Pete Doherty e Carl Barat. Era l’anno di Up The Bracket. La prima traccia del disco, Vertigo: bastavano 11 secondi per capire che avevi tra le mani un album destinato a finire tra i lavori d’esordio più belli di sempre nella classifica di Rolling Stone. Dopo gli Strokes (usciti l’anno prima con Is This It), ecco questi due, dall’Inghilterra. Con un album di una sincerità disarmante: com’è registrato, i brani, il modo di suonare (“impreciso”, sì). Roba da 10 take e via, roba che oggi non esiste più. Prodotto da Mick Jones. Il chitarrista dei Clash. Che in quei due deve aver visto quello che vedemmo tutti: niente di più e niente di meno che due rockstar. Niente pose. Niente vezzi. Pete più che Carl. Quei jeans scocciati con il nastro adesivo, i pantaloni della tuta e le scarpe di cuoio di mala fattura: comunque e sempre il più stiloso di tutti. Dopo Up The Bracket arrivò The Libertines: nel 2006, due anni dopo l’uscita, NME lo piazzò al numero 47 nella chart dei migliori album inglesi di sempre. Fate una rassegna rapida sul tema “album inglesi” e f*ck, doveva proprio essere un disco clamoroso per finire lì. Lo era. Intanto, una vita da rockstar. Il titolo di un romanzo per adolescenti? No. Perché Pete quella vita la faceva davvero, in bilico perenne tra gloria e baratro come da ‘manuale’ della storia del rock. Non tutti, non sempre: lui faceva irrimediabilmente parte di quelli che non si sanno regolare. C’è chi vede un mantello poetico dietro l’abuso di sostanze ma la verità è che non c’è alcuna poesia. Nemmeno un briciolo. Solo male. E quel male, era il mare in cui nuotava Doherty. Nel mezzo, un lungo fidanzamento rotto e poi ripreso con Kate Moss. Chi se non lei? Lei, che gli nuotava accanto, mica per salvarlo ma per stare a galla o affondare insieme.

Hedi Slimane, allora direttore creativo di Dior, s’innamorò dello stile di Pete e gli dedicò un libro, Birth Of A Cult. Era il 2005. L’anno prima era uscito un feat. di Doherty con Wolfman nel pezzo “For Lovers“, con un video girato a Parigi. Come porta l’abito Pete in quel videoclip, signori, è bignami dello stile. La noncuranza, il menefreghismo svagato con cui riesce a rendere rock’n’roll una delle sciarpe più classiche (e noiose) di sempre. Il brano è bello, di una malinconia che oggi chi era ragazzo insieme ai Libertines e a Pete prova, di sicuro.

Coetanei o forse un po’ più giovani di lui che ancora ‘mettono suRoad to Ruin o Death on the Stairs e se le godono con un bicchiere di rosso. A guardare Peter in quelle foto da “come è diventato” (già, pure noi abbiamo titolato così, è la vita Messieurs -dames), quei ragazzi lì hanno avuto un sussulto. Alcuni sono corsi subito a vedere Carl Barat, per scoprire che è invecchiato sì, ma è sostanzialmente lui. E invece Pete no, niente, stenti a riconoscerlo. Antitesi di ogni stile, “mangia toast al formaggio”. In quella ‘letteratura’ che fa delle rockstar che non si sanno regolare qualcosa di iconico, Doherty ha una pagina tutta per sé. Perché lo paghi, il non saperti regolare. In qualche modo ti si appiccica addosso. Ma la verità, caro Peter Daniell Doherty, è che siamo contenti che tu sia pulito. E vivo (t’hanno ripreso dal tunnel bianco diverse volte). E che tu ci abbia lasciato una manciata di pezzi veramente belli. Un percorso, il tuo, talmente scintillante che è bruciato subito. E stasera, noi che eravamo ragazzi quando tu ti scocciavi i jeans col nastro adesivo senza pensare minimamente alla resa scenica, ascolteremo. The good old days.

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