I gesti di alcuni uomini coraggiosi possiedono la forza di squarciare veli impietosi su temi tanto gravi quanto rimossi dal discorso pubblico. Cesare Prandelli è uno di questi. Il suo chiamarsi fuori dal palcoscenico del calcio mentre la sua squadra, la Fiorentina, si guadagna un campionato in modo più che meritevole ha riportato l’attenzione su un grande male del nostro tempo, forse tra i più nefasti, col quale ancora la società non vuole fare i conti sino in fondo: la depressione.
Non è chiaro se quel male che lo affligge sia il male oscuro, ma va dato merito alle sue dichiarazioni di aver portato l’attenzione dei media su una patologia che non fa sconti di età, censo, né ha riguardo per le categorie fragili. Colpisce spesso in maniera improvvisa e vigliacca, svuotando di senso ogni azione e attività quotidiana.
Se da un lato affrontiamo in studio le cosiddette “depressioni reattive”, strutturate come reazione ad un evento luttuoso dal quale l’individuo deve prendere le distanze senza cadere in quel cono d’ombra che, come insegna Freud, può trascinarlo nel baratro, più dure da fronteggiare sono quelle forme di melanconia per le quali è difficile – in molti casi impossibile – retrodatarne la causa originante.
Molti sono gli uomini e le donne colpiti a tradimento, che avvertono il bisogno di scendere e saltare un giro. Adolescenti nel pieno della loro separazione del nucleo familiare, adulti nel mezzo della loro vita. Puerpere che hanno appena dato alla luce un figlio. Manager in carriera, cassintegrati. Pochi immaginano quanto sia difficile la vita del depresso grave, il quale fa i conti nitidamente con la finitezza della vita, assistendo impotente allo scolorirsi ed affievolirsi delle cose, alla perdita di valore del suo agire, dei suoi affetti. Sono talmente depresso che non trovo la forza né di vivere, né di morire, mi confidava anni fa un paziente risucchiato nel buco nero e condannato per questo ad una vita che non andava oltre il binomio letto-cucina.
La depressione è forse, tra tante, la malattia che più di altre non riesce ad essere codificata e riconosciuta nella simbologia collettiva. Questo perché il mondo dell’immagine, del vigore e del mito della laboriosità come paradigma dal quale non si può prescindere creano quella semplicistica barriera sulla quale si ferma qualsiasi tentativo di introspezione, propria ed altrui. La depressione non comporta alcuna menomazione del corpo, nessuno stigma fisico codificato e, per questo, non le è concesso lo status di malattia. Vale l’adagio che tutto sommato non sembri stare male, poiché sei vivo, lavori e vai in automobile, dunque, con ogni probabilità, si tratta semplicemente di una scarsa forza di volontà. Dunque coraggio, fatti forza, la vita è bella, reagisci!
I frequentatori di questi luoghi comuni non immaginano lontanamente quanto denso e scuro sia l’universo piatto e desolato del melanconico, e al contempo corroborano idee e convinzioni che sono alla base di bizzarri e sciagurati approcci pseudoterapeutici: “Se lo vuoi lo puoi! Trova dentro di te la forza! Se gli psichiatri prescrivessero camminate…” Questi adagi sono tra i più facili da trovare in rete. Da Giuseppe Berto a D. F. Wallace e, scendendo dal palcoscenico delle celebrità, passando per il nostro amico, la nostra vicina di casa, l’impiegato: chi ne è colpito viene scaraventato in una sorta di penombra che non promette più alcun’alba.
Il buio nel quale precipita il depresso è letale perché molto spesso non ha alcun aggancio con la realtà. Non è il frutto di un addio, di un distacco. Non di una perdita, né di un lutto. Non è la pece che si posa sul cuore e lo pietrifica appena dopo aver sepolto un amico o un familiare. E nemmeno è quell’annunciarsi di nebbia e piombo che segue ad un distacco amoroso. Non presuppone un oggetto perso, non anela ad una riconquista. È l’indicibile male della perdita di un non luogo, di una posizione fittizia. Un male impalpabile, ma non per questo meno acuto. Ambrosiano e Gaburri scrivono che durante le guerre o i disastri naturali, la melanconia può invadere l’animo: l’impulso a essere una cosa sola con i morti. La melanconia è l’impossibilità di vivere il dolore della perdita e della morte, essa suggerisce piuttosto di morire con il morto.
Dinnanzi al lutto, alla perdita, alla mancanza, ognuno avverte, più o meno oscuramente, che è in gioco la propria capacità di continuare a vivere. La melanconia è proprio questo, una fossa comune in cui giacciono dei morti che vagano senza sepoltura, tra questi il bambino interno perduto, le ferite mortali subite. Quando fu il mio turno di patire i morsi del nero, chi era deputato a seguirmi si spaventò al punto da cadere nel marasma e mettermi fuori dallo studio, costituendo per lui la depressione qualcosa di ingestibile. Grazie a questo disgraziato incontro ho imparato, dall’altra parte del lettino, a tenere salda la posizione per tutti quelli che vogliono scendere e saltare un giro.